martedì 31 ottobre 2006

Nina Corwin


Psicoterapeuta a Chicago, la Corwin coniuga il sincopato del jazz con l'idea che la parola sia essa stessa un viaggio, un'esperienza del corpo. Non mi pare ci sia molto in rete e certo merita di essere conosciuta. Vi invito ad ascoltarla in questo sito.

domenica 29 ottobre 2006

le scarpe di Van Gogh


Riporto un celebre passo heideggeriano tratto da Sentieri interrotti. Da qui comincia la sua indagine sull'esser cosa della cosa.

"La contadina calza le scarpe nel campo. Solo qui esse sono ciò che sono. Ed esse sono tanto più ciò che sono quanto meno la contadina, lavorando, pensa alle scarpe o le vede o le sente. Essa è in piedi e cammina in esse. Ecco come le scarpe servono realmente. È nel corso di questo uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il carattere di mezzo. Fin che noi ci limitiamo a rappresentarci un paio di scarpe in generale o osserviamo in un quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro non-impiego, non saremo mai in grado di cogliere ciò che, in verità, è l'esser-mezzo del mezzo. Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da con­tadino non c'è nulla di cui potrebbero far parte, c'è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccati, denunciandone almeno l'im­piego. Un paio di scarpe da contadino e null'altro. Ma tut­tavia...
Nell'orificio oscuro dall'interno logoro si palesa la fa­tica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, bat­tuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono in­vernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bi­sogno, il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo ap­partenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo ripo­sare in se stesso." (trad. Pietro Chiodi)

venerdì 27 ottobre 2006

Pseudoleibniz


Questo è il migliore dei mondi, possibile?

giovedì 26 ottobre 2006

Scuola


Visto che in questi giorni si è parlato di scuola, posto un pensierino, scritto nell'estate del 2005 e pubblicato da Nabanassar.




Quando confesso a qualcuno, sottovoce, di “fare l’insegnante”, ammetto implicitamente di lavorare poco, di prendere troppo e di avere un mucchio di vacanze. Con il mio grande stipendio posso infatti comprare quello che voglio. E allora lo spendo per viaggiare, correndo da casa a scuola e viceversa; e visitando musei, mostre e popoli lontani perché non riesco a farne a meno; qualche soldo lo uso per acquistare libri, anche quelli che poi mi serviranno in classe. Con i soldi che rimangono – oltre a pagare il mutuo della casa - mando a scuola mio figlio e, finanziando le sue passioni, alimento i mercati dei Pokemon e dei videogiochi. Sono insomma un perfetto cliente dell’industria culturale globalizzata, con tanto tempo a disposizione per pubblicizzare i suoi prodotti: libri, città, musei, film, album di figurine. A scuola, c’è ancora chi crede che insegnare significhi occupare uno spazio chiuso fino al suono della campanella, impegnando gli studenti in attività non pericolose. Perché nessuno se ne accorga, basta dare buoni voti. I genitori verranno a trovarti convinti di avere un figlio intelligente e faranno discorsi intelligenti, elogiando la scuola e la professionalità dei docenti. D’altro canto, la necessità di preservare le cattedre, ci obbliga a promuovere quasi tutti. Per farlo, basta abbassare gli obiettivi minimi richiesti per accedere alla classe successiva: capita così che qualche ragazzo, pur confondendo le doppie o il principio di non contraddizione, raggiunta la classe terminale, superi gli esami di Stato, e sia poi felicemente lanciato all’università, con la frase: “finalmente è andato fuori dalle balle!”.
In questi giorni ho fatto il commissario agli Esami di Stato: ho infatti compilato decine di pagine di verbale, messo un centinaio di firme e rischiato ugualmente ricorso perché mi sono dimenticato di annotare il rientro dal bagno di una ragazza durante la prima prova scritta. La pagina porta infatti nel riquadro apposito soltanto l’ora d’uscita; teoricamente, quella sciagurata potrebbe ancora essere chiusa là dentro, con i foglietti per copiare nascosti da qualche parte, come ho visto fare ai miei colleghi nei concorsi di abilitazione. Naturalmente l’ho fatto anch’io, altrimenti mi bocciavano per fessità conclamata. A proposito delle tracce d’esame. Quest’anno, gli espertoni governativi hanno scelto un autore assolutamente contemporaneo: quel certo Dante Alighieri, il cui avo, il cavalier Berlusca di Cacciaguida, invitò a dire sempre la verità, anche se scomoda. Per questa ragione morì crociato in Terrasanta, dopo aver dissanguato gli infedeli e tutti i peggiori e comodi bugiardi. Parlare di un autore contemporaneo, a scuola, significa fare del gossip sulla ragazza di Bube o disquisire sulle occasioni perdute nella casa dei doganieri dal Montale adolescente. Quando l’insegnate vuole strafare, cita Sanguineti, ma soltanto per dire che uno così non lo vorrebbe nemmeno come insegnante di sostegno al proprio figlio. Più spesso, tuttavia, ci si limita alla meteorologia dannunziana e a quell’incosciente di Zeno Cosini, che tradiva la moglie e scriveva in un pessimo italiano. Meno male che c’è il programma di storia: per tutti, infatti, la seconda guerra mondiale è una tasca scoperta; poco oltre c’è un buco insondabile, ma meglio così, altrimenti, come dicono i più accorti, si fa politica. E cioè si parla male della democrazia cristiana e dell’amerika nucleare di Truman, col rischio di confondere i ragazzi, i quali nel frattempo si fanno le canne nei bagni, frequentano i punkabestia e ogni tanto si gettano dai ponti. Però al liceo artistico, dove insegno, gli studenti non sono niente male. A parte la difficoltà di ragionare, hanno una ricchissima immaginazione, che attinge spudoratamente dalle riviste e dagli artisti studiati. In pratica, ripetono il già visto e il già sentito, perché la creatività, a scuola, è materia assai brava, che non “sa da fare” né ora né mai. La riforma di mamma Moratti ha dato una mano in questo senso, togliendo ore buone alle discipline d’indirizzo. Per quanto mi riguarda, ho giusto il tempo per aprire e chiudere il manuale, per dire che Zacinto e Zante sono lo stesso luogo di villeggiatura e che, per imparare a scrivere un saggio breve o un articolo di giornale, conviene andare a ripetizione. Malgrado questo disastro, i miei studenti diplomati ancora mi salutano, quando mi incontrano per strada; qualcuno addirittura mi cerca, mi invita a mangiare una pizza o vorrebbe una lista di libri da “leggere assolutamente”. Io, al solito, non so che dire, sposto l’appuntamento più in là, prometto di fotocopiare l’indice del manuale: “Là – dico – ci sono tutti i titoli che vuoi”. Naturalmente, i più intelligenti mi mandano a fanculo; di solito le amicizie più belle sono cominciate così.
Siccome ogni temino ha bisogno di una conclusione, che sia coerente con lo svolgimento, ma siccome di coerente nella scuola c’è assai poco, io la conclusione non la scrivo. Lascio soltanto alcune parole per terra, andando a ritroso: Moratti, disastro, ponti, gossip, crociata, ricorso, burocrazia, obiettivi minimi garantiti, Pokemon, mediocrità, imbarazzo...

mercoledì 25 ottobre 2006

Mario Moroni



Dal numero 40 di Anterem (giugno 1990) riporto questa dichiarazione di poetica di Mario Moroni, esemplare nell'indicare lo scarto fra la poesia degli anni settanta e quella degli anni ottanta: "II testo del 1979 (Qui finisce la sentimentalità) era segnato, già nel suo titolo, da una mia formazione culturale che aveva avuto come basi la neoavanguardia italiana degli anni Sessanta e, più in gene­rale, la nozione di avanguardia come si era venuta delineando dal­la fine dell'Ottocento fino alle avanguardie storiche. Questo testo era attraversato dalla consapevolezza che alla poesia non si potessero af­fidare compiti di salvazione dell'uomo, né tantomeno di facili e di­rette identificazioni con la realtà e con il vissuto. In quel momento la mia ipotesi operativa era di svolgere una ricerca che fosse contem­poraneamente un atto critico verso il linguaggio stesso. Ciò implica­va che ogni poesia fosse in qualche modo una "poesia sul fare poe­sia", affidando a questa scelta tautologica il compito di rimettere in discussione quelli che erano i meccanismi scontati della comunica­zione estetica e non. Nello stesso tempo si delineava il tentativo (di cui le due strofe qui presentate sono un esempio) di operare una ri­costruzione che investisse sia il livello sintattico sia quello semantico del verso. Vale a dire il tentativo di riattivare circuiti del significato, un tentativo che conteneva le premesse dello sviluppo che i miei testi poetici avrebbero avuto nel decennio successivo.
Venendo al testo del 1988 (Paesaggi Pavesiani I), si può notare già ad una prima lettura come la prospettiva semantica e sintattica si sia notevolmente aperta, in vista di maggiori possibilità di comunicazione. Dalla rigida e "crudele" fissità straniata dei versi del 1979 mi sono spostato verso una maggiore disponibilità alla mobilizzazione dell'immagine poeti­ca. Da una struttura sintattica rigidamente costruita (verbo + so­stantivo + aggettivo; oppure soltanto sostantivo + aggettivo) mi sono spostato verso una sintassi più flessibile, che potesse contenere scarti semantici sottili, riferimenti a fili della memoria e infine la reintro­duzione di referenti legati alla natura e alle sue possibili connessioni a livello d'immagine (descrizione di luoghi e ambienti, paesaggi, ecc...). Sul piano del messaggio poetico dovrei segnalare ulteriori spostamenti, filtraggi. Mi limiterò a dire che ho cercato di assumere e riassumere la funzione "critica" della scrittura poetica in una serie di segnali minimi, allo scopo di farla scorrere come una linea sotter­ranea nel testo. Ma senza trasmetterla con un tono troppo eclatante che potrebbe produrre segnali definitivi e definitori, nel senso di in­dicare con certezza dove la poesia deve andare a parare, dove deve colpire. Tutto ciò nella convinzione che i percorsi della scrittura ri­chiedano trasformazioni degli atteggiamenti e delle modalità com­positive; e nella convinzione che la cosa più importante per un auto­re sia continuare a lanciare segnali, a lasciare dietro di sé tracce che inducano a una lettura complessa, come complessa è l'operazio­ne di scrittura.


da Qui finisce la sentimentalità


1

lasciandola al suo posto abbandonando locuzioni
senza conforti comunicando infrazioni
logica inconscia lanciando segnali senza conforti
sul percorso animato molto tradotto
materia estroversa o tensione animale
simili conferme su nessuna posizione
senza registri o altre preistorie senza crogioli


10

diventando l'articolo come la vita
se l'oggetto è tutto nel mondo
che sembra spiegare ma poi s'inabissa
sotto forme impastate tra due o tre parole
già permeabili in questo tramonto
la migliore lettura è dotata di corpo
di fronte al disegno della nutrice

1979




da Paesaggi pavesiani I


quando gli occhi, avete spento gli occhi
se c'è nulla che valga adesso e ancora giorno
come alberi e forme se poi piano scendete
come se fossero ancora cicli che sempre dopo tutto
e col corpo parlando e col fiume nuotando
senza arrivare, senza scappare, sull'altro versante
a miglia di terra e zone innevate, vedete

così e anche così, voi siete quelli
che avreste voluto chiamare e dopo
aver detto ogni cosa e ascoltato, così
seduti ma anche non visti, non ancora
soltanto le immagini all'ombra e così
non muovete il buio, che resta da solo
a descrivere

poi lasciate ferme le cose, con schiume di nuvole
al di qua del deserto anche dentro e di fuori
nel vostro passaggio, posizioni di vetro
le solite materie, a invogliare risposte

1988



Mario Moroni è nato a Tarquinia (VT) nel 1955. Dal 1989 vive negli Stati Uniti dove ha insegnato all' università di Yale e a quella di Memphis. Dal 2001 è Assistente al Colby College. Ha pubblicato sei volumi di poesia ed uno di prose poetiche. Nel 1989 ha vinto il premio di poesia Lorenzo Montano. Sue poesie sono apparse su numerose riviste ed antologie di poesia italiana contemporanea. Come critico letterario, ha pubblicato "Essere e fare" (Luisè, 1991), "La presenza complessa" (Longo,1998) ed è stato il co-curatore di due volumi di saggi: "Italian Modernism (University of Toronto Press, 2004) e "From Eugenio Montale to Amelia Rosselli" (Troubador Press, 2004).

martedì 24 ottobre 2006

Il moto apparente del sole




Giardino Freudiano
Conversazione con l'autore
Presentazione del libro
Il moto apparente del sole. Storia dell'infelicità
di Flavio Ermini

Sabato 28 Ottobre 2006 ore 15.30
- Casa di Cristallo - Via Altinate 114/A Padova
Partecipano:
- Stefano Guglielmin, poeta
- Ivana Cenci, responsabile del laboratorio "Artèmis Letture"
- Martina Pittarello, attrice
Coordina:
- Patrizia Lupi, psicoanalista


Su "L'Immaginazione", n. 223, luglio 2006 è uscita questa mia recensione:

Fare della scrittura saggistica un pensiero che sia canto, una superficie dove, nell’apparenza, l’invisibile dimori; raccontare l’urgenza di mettere in tragica comunione verità e bellezza, sensibilità e conoscenza: sono questi i due cardini simultanei del moto apparente del sole, messi in scena da un paesaggio allegorico, tutto nebbie e crepe, che ha tuttavia nell’«antro» salvifico il suo inizio e la sua meta. «Antro» infatti è sia l’età delle archai «dove niente si distingue» ma tutto è possibile e sia l’approdo salutare, quella Wildniss annunciata da Hölderlin, che «non è selva, ma radura che attende il primo passo dell’uomo» votatosi all’ascolto dell’origine. Su questa struttura ontologica, Ermini costruisce una complessa fenomenologia, un «catalogo» di voci, la cui funzione mira a portare alla massima potenza la poetica dell’Inizio, di cui gli editoriali degli ultimi dieci anni di “Anterem” sono stati splendidi bijou (ora raccolti con il titolo Antiterra per le edizioni Joker): si tratta di un progetto che dà vita ad una scrittura giocata nel lasco tra silenzio e voce, caos e ordine, naturale e culturale, in un procedere, appunto, che asseconda «il movimento dell’origine, sorvegliandone la gestazione e il travaglio, ripetendolo».
In tal senso, anche la storia dell’infelicità è solo apparente: non ha infatti progresso o senescenza questo stato di privazione, che invece ci pervade dall’istante successivo all’inizio, da quando, abbandonato l’antro, la storia è cominciata, inaugurando il nostro esilio, quella «continua mutilazione» che è l’esistere nel suo passare generazionale. Secondo l'autore, quest’erranza, giocata nella finitudine del mondo, è tuttavia necessaria affinché la «percezione di sé diventi percezione del mondo e puro pronunciarsi del canto». Ciò significa che non si dà poesia, se non nel dialogo con la propria radice nascosta, la quale mette in prossimità della parola autentica l’enigma del venire alla luce tanto del singolo uomo quanto della comunità. Così facendo, continua Ermini, la parola guarisce, ossia riacquista la facoltà di creare «il mutevole orizzonte del mondo», come fecero, per primi, i «Nomothetes».
La chiamata in causa dei ‘legislatori’, di queste figure giuridiche (e storiche) dell’antica Grecia, qui trasformate, sulla scorta di una lettura audace del Cratilo platonico, in presenze mitologiche, ci consente di toccare il punto più delicato dell’intero libro erminiano, che riguarda la pluralità dei modi in cui l’essere viene fatto circolare di pagina in pagina, in una ridda sinonimica assai problematica: se infatti talvolta si rinvia all’«essere abbandonato» di J.L. Nancy, dove la presenza viene al mondo «ogni volta una», senza residui metafisici, talaltra emerge la nozione heideggeriana dell’es gibt, di quel darsi-ritraendosi del «dire originario» al quale corrispondere nel silenzio dell’ascolto; in altri passaggi, ancora, la metafora mitica del chaos, quale differire continuo che tiene aperto il possibile, assomiglia alla différance di Derrida, mentre gli stessi archetipi che abitano «l’antro», vengono a costituirsi quali essenze immutabili, principi primi estranei a Kronos e semmai figli di Kairos, con ciò avvicinando, questo e altri passi del libro, all’esoterismo occidentale, dove la liberazione dalle catene del transeunte passa per l’ascesi, il sapere iniziatico e la fondazione «di una nuova terra» dove luce ed opera mettano in comunione i mortali.
Malgrado questi sfasamenti metafisici – facili ad insinuarsi in un libro che fermenta e cresce dall’interno, incurante del principio di non contraddizione e che vuole invece far fecondare gli opposti (con enfasi esoterica, appunto, ma anche con l’entusiasmo di un fanciullo) – la lettura del Moto apparente del sole è assai avvincente, ricchissima di narrazione sapienziale e di carica immaginifica, oltre che d’impegno civile, nella misura in cui il presente, dove regnano «solitudine» e «decomposizione», trova nella poesia il suo canto funebre, ma anche la forza per un nuovo inizio.

lunedì 23 ottobre 2006

fanciullino



Ci sono momenti, con i miei ragazzi del liceo, in cui davvero si piange insieme e ci si inebria. E' capitato per esempio stamattina, leggendo questo passo pascoliano, mentre alla finestra l'autunno ci ricordava che tutto passa e ogni cosa è bella perché gratuita




"Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. [...] E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente."

domenica 22 ottobre 2006

Giancarlo Albisola



Ci sono autori che scelgono malauguratamente di piegare le ragioni della poesia a circostanze specifiche, quasi che la scrittura dovesse ad una, ed una soltanto, piega del vivere la propria luce. Albisola, ritenendosi un "maestro della poesia omosessuale del '900", si è invero costruito un destino anonimo e vagamente narciso. A me pare invece che egli sia un maestro della poesia contemporanea tout court, che meriterebbe d'essere conosciuto da donne, uomini, bambini ed editori.


nota: Bruno Romano, a cui Albisola dedica i seguenti testi (scritti nel 1961), fu autore, nello stesso anno, d'un progetto di legge per la repressione della omosessualità.

In vita del giovane R...

Il giovine R..., di cui [scrivo] nella presente lirica, è stato, a più riprese, fra i diciassette e i ventun anni, ed è attualmente, ospite di una clinica per malattie nervose e mentali. Non ha avuto ancora "rapporti". Non guarirà più.
All'origine del male il cruccio, fatto ossessivo, di non poter fare a meno di essere un ragazzo "così". E di rincalzo, forse, last but non least, i lazzi indecorosi, pungenti, dei compagni di scuola (d'un compagno di scuola?)

All'On. Bruno Romano, del PSDI, l'Autore dedica.


1

Forse Rafele, fra le mura bianche
della clinica (e chiamano clinica
- VILLA DICIOTTO-UNO
(VILLA DICIOTTO-DUE) sta scritto sul portale
d'ingresso a lettere giganti - l'asilo
decoroso, l'apparenze, il dignitoso soggiorno),
forse Rafele, nel silenzio oscuro,
ai sereni ricordi, se ricordi
furono (ieri) di letizia mai,
di troppo gravi mali, intento, vai seguendo
il filo luminoso che discerne
l'"oggi" impietoso e lo "ieri" che punge
angoscioso e affatica la mente.



2

E se il ricordo addolcisce un istante
quanto ancora ti porta il presente
d'amaro, pur distaccato nella malinconica
quiete isolata, le braccia che trascini, lunghissime
ali stanche arrovesciate al suolo,
curvo sulla spalliera della sedia, dondoli il braccio
- sfiora il dito il filo d'erba umido
della pioggia di ieri - l'occhio sbarrato,
esterefatto, al vento
del tardo maggio, che i capelli biondi
ti scompiglia, se può chiamarsi maggio
questo maggio così fuori stagione
(pare un novembre: fastidiose mosche
ronzano intorno, appiccicate ai vetri,
sciamano al buio, gravi a due per volta,
vibrando l'ali..............................................
.................................................................
.........(Pausa)
Guardi nel vuoto: gli occhi, oh!, gli occhi,
meravigliosi ieri, oggi disfatti,
torbidi e liquefatti, trasparenti,
quasi diafani, opachi, come opaco
liquido il fondo opale (scente) giallo
di certe mie caramelle all'arquebuse: il dono
che ti feci d'una d'esse (t'ero allora
- breve soggiorno il mio - compagno di clausura),
pel ricordo che di te m'hai lasciato,
e serberò per me, intatto, a lungo;
presala colle labbra (la fame, la fame
rabbiosa che mette indosso lo shock insulinico),
presala colle labbra (quella fame),
quasi la divorasti in un istante:
digrignavano i denti, macinavi
la preda avido; lacrime quasi
parevano colare, maltrattenute,
da le pupille su le gote.
Ed ora (ancora)
guardi nel vuoto, annichilito, l'occhio
fattosi quasi limpido già, disfatto
fanciullo appena più che adolescente,
oggi, oggi sei maggiorenne,
le labbra amare (e dolci nel ricordo),
le ciglia delicate, il volto pallido,
tinto quasi in continuo di rossore
("Ma non potresti - chiedevi (arrossivi
di fuoco) - dir loro che parlino d'"altri")
il volto acerbo e delicato, l'oro
dei tuoi capelli; e le mani, le dita
affusolate di fanciulla, e tutto
tutto del corpo, se disteso al sole

Giancarlo Albisola Albertalli è nato nella cintura torinese nel 1930. In rete non ci sono foto più recenti.

sabato 21 ottobre 2006

Patrizia Vicinelli











Da Nazione Indiana riprendo una delle poche poesie rintracciabili in rete di un'autrice complessa e malamente scavalcata dal rumore contemporaneo. Vi invito poi a guardare e sentire questa sua performance.


Da un altro punto furono viste le stagioni
fino lì sconosciute
solo allora poté sedersi ad ammirare
il senso dell’alternanza.
Dalla sua radice gassosa ne muta
la base visibile
e lo cimenta la traiettoria
di notte e giorno la luce,
il cielo.
È fusa la donna alla sua ombra
eppure trema al fuoco dell’inizio
così se li sposta i suoi passi
Iside all’orizzonte mèta
ora essa fugge la sua lontananza.
Perché non cola l’attesa profumata
ossia fermarsi
la sua ansia volta avrà la fine
di profilo porre cosa la tiene unita
quella che stacca la radice, un alito.
Batte allora sul ferro la materia di sé
e lo plasma ogni angolo continuo
della vista
una distanza del suo centro esatta
la definisce.
I piani diversi del linguaggio
ne è avvolto
così genera le forme della sua ricerca
egli ha imparato come lasciarsi solcare
ad essere cinto dalle tracce.
Con un colpo d’occhio sentiva
la presenza simultanea di tutto ciò
che nella terra cresce
e questa coscienza della situazione attuale
lo aiutava come una disciplina.
Ciò che non è compiuto spinge
il modo del procedere,
mèta, mèta, arsi e riarsi,
durante la costa dei millenni.
Incessante se lo vide rinascere e morire
il mondo fino a dove
non ci fu più tempo né abbastanza luce
per seguitare i paradossi demoniaci
sbalzato come dura pietra molle ora
nelle acque del fiume,
si agitava dentro pezzi di realtà dissimili.
Nel mentre cantano nel petto i volti
dei suoi sogni
muta al mattino in albe anche dorate,
quale certezza venga da mondi paralleli, attriti
posti sopra o sotto, vincolanti.
Scivolando lungamente sul fianco
della piramide atavica
lo blocca quando vuole come esercizio
e intanto la miseria dell’uomo
va consumata dentro di sé, nell’arca
del suo spazio interiore
intendeva infrangere ciò che da inadeguato
si ricompone ad ogni istante.
L’attrazione dinamica del fare mancò
a quel punto
e alla fine della danza più lunga,
l’abbandono e il silenzio
della grandiosa solitudine
lo rendeva eterno,
come collocato su di un punto raso
della terra, sotto le stelle.
Non era più chiamato in battaglia
da tanto tempo.
Il mio inizio è forse il solo inizio,
disse l’uomo assetato, e si sedette
a guardare l’evidenza del suo destino.
Il cavaliere che guarda la luna,
non cerca e non aspetta niente.
Beveva quel soffice vino d’agosto
e teneva la porta aperta
sulla laguna afosa della fine d’agosto,
musica in viole di quel tempo, vino di Graal.
Si chiedeva se non fosse una sua fantasia
mentre risa fendevano l’aria,
di giovani donne ubriache.
Arrossisce il suo silenzio il vino
e gli dà corpo
col respiro batte il ritmo della mente
nell’aria intatta
ora a cerchio lo sguardo, la perdita
lo svela,
un parallelepipedo di una battaglia navale
del settecento,
esatto d’ombre fatte di sfumature.
In settembre oltre la luce così bassa
e radente c’è nebbia
e l’odore di funghi porcini annusati
a lungo, come nelle cene d’inverno
dentro le buste di plastica.
La configurazione del male così conosciuta
era allora impalpabile, sembrava
non ci fosse traccia.
Intanto la luna al primo giorno calante
porge la notte in adagio,
la struttura tutto sommato
è tonda ora, poi cambierà.
Già pensa che il santo Graal è troppo
lontano, e il bicchiere si sta offuscando
di rosso, – qualsiasi cosa signore, ma spingimi
avanti – nuovamente il bicchiere brilla rosso
e la luna fra gli alberi cade con la certa nebbia
fino ai pini e alle acacie, ma non i grilli, non
i ragni, le libellule fino a ieri poi.
Non c’è arrivo non c’è sosta non
c’è partenza, ma il succedersi senza tregua.
Questo sì, che ad ogni livello ne succeda
un altro, per generazione spontanea
l’aveva saputo dalla ruota che girava
mentre i mondi finivano, a volte.


Tratto da Opere, all'insegna del pesce d'oro, 1994.


Patrizia Vicinelli è nata a Bologna nel 1943 e vi è morta nel 1991. Negli anni ‘60 lavora al teatro sperimentale con Aldo Braibanti ed Emilio Villa, ed a film d’avanguardia con Alberto Grifi e Gianni Castagnoli. Ha fatto parte del Gruppo 63 dal convegno di La Spezia (1966). Ha collaborato a diverse riviste, tra cui «EX», «Continuum», «Quindici», «Che Fare», «Il Marcatré», «Alfabeta», ed è presente anche in dischi di poesia fonetica e sonora : “a. a. A.”, Marcatré, 1967; Futura, Cramps, 1978; Baobab n. 11, 1981. Nel campo della poesia visuale ha esposto in varie parti del mondo; molto nutrita è stata l’attività di performer con letture in festival nazionali ed internazionali. Ha pubblicato : a. à. A (Lerici, 1967), Apology of schizoid woman (Tauma, 1979), Non sempre ricordano (Aelia Laelia Ed., 1985) e - postumo - Opere, a cura di Renato Pedio (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1994).

giovedì 19 ottobre 2006

La distanza immedicata


Finalmente è uscito La distanza immedicata, il mio nuovo libro di poesie con testo a fronte in inglese. La prima cosa che mi sento in dovere di fare è ringraziare chi mi ha aiutato in questa impresa. Anzitutto Fabrizio Bianchi, che ha caparbiamente voluto il libro, 'pedinandomi' come un padre che teme la deriva del figlio. E poi, a pari merito, Gray Sutherland, simpaticissimo poeta e traduttore canadese, che ho avuto il piacere di ospitare a Schio e con il quale, tra una grappa e un tiramisù, ho condiviso le fatiche finali della traduzione. Fatica sopportata anche da Anna Lombardo che, in lunghissime telefonate e concitate e-mail, ha ripreso, discusso, criticato, migliorato, il lavoro sin lì fatto. Da parte mia, che in inglese sono sempre fermo alla seconda lezione, laddove non mi sentivo sicuro, ho consultato validi amici traduttori, quali sono Roberto Cogo e Chiara De Luca.
Un particolare ringraziamento va a Giovanna Frene, impegnatissima nella discussione della tesi di dottorato eppure capace di scrivere una introduzione straordinaria per sintesi e profondità.
Non posso poi dimenticare i poeti che hanno accettato di scrivere qualcosa per la quarta di copertina, ossia Maria Grazia Calandrone, Ida Travi, Cesare Viviani e Tiziano Salari: ogni bene per loro, nella speranza che La distanza immedicata valga davvero le loro incoraggianti parole.
Un grandissimo ringraziamento va, inoltre, a tutti coloro che parteciperanno alle presentazioni che stiamo organizzando qui e là per lo Stivale e a chi, da casa, dedicherà qualche istante alla lettura del libro.
Un grande ringraziamento va infine a tutti i naviganti che cliccano questo blog, nella speranza che, passare di qua, sia utile a qualcosa.

1

si dà il lampo, infatti
nella brocca in cui cresci, e festa
dissemina il tempo per gli amici sul prato

sotto chiave è l’avvio:
buona la pace di chi siede e l’ombra
di atene in ogni cosa

ecco mettiti qui, a lato del libro, e scendi
se puoi, là dove s’increspa la gioia

si dice amato chi ne tiene a balia la piega

1

the flash yields, in fact
in the jug you’re growing in, and party
scatters time for the friends on the grass

the start is under key:
good the peace of he who sits and the shadow
of athens in everything

here, come here, beside the book, and go down
if you can, where joy gathers

you’re loved, they say, if you can draw out its folds
2

e se resiste, lei, è per legàti e presti, è per la musica
messa in rima al corpo

con suo padre sul dorso delle mani, e già stato
che invecchia in riva ai nomi

scrive un libro di scorta, lui, ma da lontano
non vedi che tronchi, bronchi

o l’agra malattia che fa la parola guerra
quando nasce dalla pancia

e la parola pancia, se come oliva o noce
sguscia dalla bocca:

cede il bianco scrosciare del fosforo
la lingua
alleva l'agnello al chiodo
2

and if she resists, it is for the presto and the legato
it’s for the music in rime with her body

with her father on the back of her hands, he’s already
been the one who ages by name-side

writes a spare book, him, but from afar
all you can see are trunks, branches

or the sharp harsh sickness that makes the word war
when belly-born

and the word belly, if like olive or nut
it slips from mouthshell:

yield the white phosphorus downpour
the tongue

lifts the lamb up to hang

mercoledì 18 ottobre 2006

Gianni Toti


Presento oggi un poeta del quale ho sempre ammirato gli equilibrismi politicamente scorretti, ma anche la sua capacità d'essere discreto, fuori dalla calca. Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi (Newton Compton 1981): ecco gli "sfavillanti deliri lessical/sintattici/semantici di quell'inguaribile cultore dell'infra-metaetimologia che è Toti: la cui sfrenatezza ha sempre le briglie sul collo, ben tirate, e il collo sotto la testa. Che è poi il testo, con la sua lucida ragione motoria a pieno regime. Toti è maestro in una pratica della scrittura come contraddizione tutta giocata sulla rissa sulfurea dei significanti che partoriscono da sé, in una serie di giostre acri e gioiose, catene e catene di significati, praticamente al­l'infinito. La sua «padronanza assoluta» della retorica e delle lingue (morte e viventi) ne fanno un caso radicale di fortissimo poeta «inat­tuale» dotato di irriverente attualità."



Brevidia
(prime vociferazioni per un Contraddizionario)


ricomincerò dalla tua faccia senza faccia tutta dita

perché se dico ti prendo la mano ti tocco
con queste parole che bucano l'aria

se ti prendo la mano se ti dico ti prendo
la mano ti tocco anche con le parole
con cui ti prendo intanto la mano

se sul silenzuolo ci prendiamo tutto
che altro tocchiamo intangibili intatti
là dove si tocca ciò che non si tocca
con la mano e con la parola?

se noi ci scateniamo allo smontaggio del tatto
con silenzi incrociati a verbi scritti
e nomi d'azione e piccole verghe accentuate
che cosa rimonteremo se non quelle catenule
di polpastrelli tenui muscolature lisce?



work in regress

col cerebronico e gli interminali
già i futuri commemorizziamo
pessime ottimalizzazioni ottime
pessimazioni poetelematiche
cosmatiche cosmetiche...

dati i dati date le date
alle banche date dei "data"
videostampàtevi in ufania:
qui i finzionari che fanno
pensare le macchine che fanno
impensare gli uomini che non fanno
ciò che spensano e sfanno
quando esonerano il cerebello

qui work in regress



contrattacizione

alacriloquente il tuo è un tristilòquio
irsuta lallazione nel poetorio
senza giardino e senza purgazione

meglio tacere paraulando

martedì 17 ottobre 2006

Angelo Maria Ripellino


Poeta da tutti celebrato, ma sempre fuori dalle crestomazie, Angelo Maria Ripellino (1923 - 1978) scrisse di sé: "Vorrei che la mia poesia risonasse come un violino, comunque esso si chiami: violon, violìn, viool, hegedù, Geige, housle, skrzypce, skripka. Anche se storto, se guercio, e perciò chagalliano. Ma non dite di aver udito dalle mie labbra: «Ich bin ein russischer Jude». Perché, sebbene io sia imbrattato delle fuliggini del Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di cal­derai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie ra­dici. Penso talvolta che questo sradicamento sia la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico.

[...] Creatura a disagio, spaesata, il poeta intona nel folto dello sfacelo i tempi di una sua «sinfonietta», recita i numeri di una guitteria, stralu­nato, bramoso di cantilene e di Kitsch, e così appassionato di metafisi­ca, da sembrar filisteo, come un archivista di Hoffmann. E per affiora­re dalla baraonda della banalità, dal grigiore dell'iterazione, non esita a travestirsi, assumendo nomi diversi, a cercare rifugio negli anacroni­smi, indossando maschere ormai inusitate di incantatore e pierrot, sus­siegose marsine e bombette." (1975)


la vecchietta


Avrebbe voluto che il figlio
diventasse un agente di assicurazioni
o un referendario.
Ma egli è partito senza dir niente
e chissà dove si trova, a Salisburgo o a Pamplona
a Bamberga o nella città di Polonia.
Vive sola la vecchietta dalle guance-meluzze,
dalla pelle di seta con ricami di rughe.
Le sarebbe piaciuto tenerselo accanto,
ma i figli fuggono, e il destino è destino.
Il marito, impiegato alle Poste, si è spento
molti anni addietro. Nella tana in cui vive
la vecchietta conserva i suoi sparati di celluloide
le sue bombette ed intere flottiglie
di colletti duri del tempo di Vienna.
Deliziosa vecchina un po' storta. Le pende
la sghemba e lunga sottana di mussola.
L'unica consolazione è una fulva
gatta viziata di nome Rosa Valetti.
Il suo scantinato: che orrendo disordine:
mucchietti di resti di cibi, ciocche di capelli,
biglietti ferroviari, cavatappi arruginiti
flaconi, barattoli, scarpe, forcine, cappelli.

Da quando Mirek è partito, resta poco in casa.
Non fa più quei dolci che prima preparava
come una liturgia secondo le ricette
nascoste in un cassetto come gioielli di famiglia.
Va da una vecchietta all'altra: tutte bigotte
e con loro in chiesa ad ascoltare padre Giona,
che emerge dal fondo del pulpito come da una balena.
Va a piedi, sebbene malferma, nei giardinetti
a osservare le piccole anatre goffe
che pattinano nel laghetto gelato.
Sono grigie le sue giornate col pensiero
al figlio lontano. Spera di sopravvivere
sino al suo ritorno. L'hanno invitata alle nozze...

...
Allevare un figlio, tremare per la sua crescita,
dargli tutta l'anima, e poi, ecco quel figlio
parte, non da più notizie, lui che era appeso
come un frutto ai rami del cuore.
Dove sarà in questo momento? Chissà se ricorda
la sua vecchia casa. Tornata dalle nozze
la vecchia accarezza Rosa Valetti, che le fa le fusa.
Nel dormiveglia le appare un corteo
di fidanzate vestite di bianco,
che viene da lei nella neve per chiedere in sposo
il suo Mirek. Bianco crespato, bianco vaporoso,
gorghi di bianco, spume bianche avanzano
nel blu della notte, come in un circo lunare!
Maestose le passano dinanzi alla finestra
lavandaie metafisiche, con un inchino d'altri tempi.
Ed una più lenta lascia cadere una scarpina.

Ogni mattina aspetta al davanzale la mano
del postino.
Di dietro l'angolo appare nel suo verde brughiera
con alto cilindro e la borsa rigonfia.
Ha il naso arrossato e la mano piena di lettere.
Una busta per me? si chiede la vecchina.
Una busta con occhi di francobolli esotici
con merletti di francobolli, una busta tutta mia.
Ma sempre svolta il postino verso la strada vicina
e la grande mano sparisce, lasciandola triste.
Interminabili giornate. Va a guardare i treni,
i lunghi pennacchi di fumo.

Si nutre poco la vecchina e del resto
è ben magra la sua pensione. In mezzo
ai dischi e ai libri del suo Mirek, incagliata
come una nave tra lastre di ghiaccio.

Le giunge notizia che Mirek lavora
in un circo oltre la Vistola. E poi che è impiegato
come manovratore alla stazione di Kufstein,
dove hanno una lontana parente,
Frau Chwalla, impiegata al Reisebüro.
Passano gli anni: è sempre più sola.
Nella vuotacasa pesa la tristezza.
Ora darà via tutti gli oggetti, per ritirarsi
in un ospizio per i vecchi
1977

domenica 15 ottobre 2006

Nella Nobili


Nel sito di Matteo Fantuzzi, è uscita la mia recensione a "La biblioteca delle voci. Interviste a 25 poeti italiani" a cura di L.Cannillo e G. Fantato.
Scelgo un aneddoto di Maria Luisa Spaziani, che mi ha particolarmente toccato:
"Quando ero ragazza a Torino c'è stato il caso di una poetessa di cui di colpo hanno parlato tutti i giornali, si chiamava Nella Nobili, un'operaia di Bologna che era riuscita - facendo la colletta tra i compagni dell'officina - a stampare un suo libro. Questo libro è stato preso molto sul serio da critici importanti e ha avuto un momento di grande notorietà di un anno. Nella Nobili è scomparsa e, per un venticinque, trent'anni, non si è mai più sentito questo nome. Un giorno, vengo a scoprire che è andata a Parigi. Qualcuno mi dice: «Questa Nella non ha fissa dimora, se la vuol vedere deve andare sui gradini della chiesa di Sant'Eustachio alla domenica e nei giorni di festa!». Sono andata e l'ho riconosciuta dalla fotografìa che c'era nel libro. Una donna strana... È stata mediocremente contenta di incontrarmi, un simulacro di amicizia si è creato tra noi e sono riuscita a invitarla a pranzo. Siamo state insie­me il pomeriggio. Mi ha molto interessato e le ho detto: «Se lei vuole venire a Roma mia ospite, mi farà piacere». «Sì, sì», diceva, ma sono partita e non ne ho saputo più niente per qualche anno. Poi l'amica con cui lei abitava è venuta a trovarmi e mi ha raccontato che un giorno l'hanno trovata impiccata alla trave della cucina. Tutte le poesie le hanno messe in un sacco e le hanno spedite a un editore di Bologna, che sono riuscita a ripescare. Nella Nobili meriterebbe di essere pubblicata."
Auspichiamo che quell'editore di Bologna faccia il proprio dovere.

sabato 14 ottobre 2006

Charles Simic


"Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1954, a sedici anni, si è trasferito negli Stati Uniti. Ironico, sferzante, giocoso, Simic è un maestro della lirica breve e della sprezzatura. La sua malattia è l'insonnia, la sua patria il territorio incerto fra sonno e veglia, incubo e contemplazione. È da quel paesaggio lievemente allucinato che Simic invia i suoi reportage poetici, fatti di inquadrature scentrate dove i dettagli più familiari si rivelano d'un tratto alieni. Autore di numerose raccolte di versi e prose saggistiche, Simic insegna Letteratura inglese all'Università del New Hampshire. Nel 1990 ha vinto il premio Pulitzer."



Macelleria

Qualche volta cammino tardi la notte e
mi fermo davanti a una macelleria chiusa.
C'è una luce sola nel negozio
come la luce in cui il forzato scava il suo tunnel.

Un grembiule pende dall'uncino:
il sangue lo macchia con la mappa
dei grandi continenti di sangue,
i grandi fiumi e oceani del sangue.

Ci sono coltelli che luccicano come altari
in una chiesa buia
dove portano lo storpio e l'imbecille
ad essere curati.

C'è un ceppo di legno dove vengono rotte ossa
ben raschiato - un fiume disseccato
fino al suo greto dove vengo nutrito,
dove profonda nella notte sento una voce.



Madre lingua

È quella che il macellaio
avvolge in un giornale
e getta sulla bilancia arrugginita
prima che tu la porti a casa

dove una gatta nera salterà
giù dalla stufa fredda
leccandosi i baffi
al suono del suo nome.



Poesia d’amore

Spolverino di piume.
Gabbia d'uccelli fatta di bisbigli.
Coda di un gatto nero.

Sono un bambino che corre
con le forbici aperte.
Ho gli occhi bendati.

Tu sei un cuore che batte
nella tenebra di una foresta.
L'urlo sulla ruota panoramica.

Proprio così, bruja
che batti il piede
con le mani ai fianchi.

Notte sulla fiera.
Orchestra di legni.
Due tagliaborse ciechi nella folla.





Solitudine

Ecco, quando la prima briciola
Cade dalla tavola
Pensi che nessuno la senta
Mentre tocca terra,

ma già da qualche parte
le formiche mettono
il cappello da quacchero
e si preparano a farti visita.

da Hotel Insonnia, trad. A. Molesini, Adelphi 2002

Singolare che l'ultima strofa di Macelleria, nella versione adelphiana reperibile in internet, suoni così:

C'è un ceppo di legno dove vengono rotte ossa
tirato a lucido - un fiume disseccato fino al suo letto
dove vengo nutrito,
dove profonda nella notte sento una voce.

giovedì 12 ottobre 2006

Corrado Costa (disegni)

Ricevo con piacere da Aida Maria Zoppetti (Matisse) alcuni disegni di Corrado Costa. Li condivido con voi.



mercoledì 11 ottobre 2006

Fernanda Romagnoli


Nella postfazione a Fernanda Romagnoli, Il tredicesimo invitato e altre poesie (Scheiwiller 2003), Donatella Bisutti scrive: “Ci sono poeti che hanno un destino di silenzio, anche se a tratti sembra che la gloria, o la fama almeno, li ab­bia per un attimo baciati. Il silenzio, in vita e in morte, tranne che per qualche breve istante, pare essere il de­stino di Fernanda Romagnoli. Di lei poeti come Bertolucci e Sereni hanno parlato come di una delle voci più alte del nostro Novecento. Ma quanti oggi anche fra i poeti e i letterati conoscono la sua opera? Il decennale della sua morte, nel 1996, è passato quasi del tutto sot­to silenzio. E dopo il 1980 non è più stata ripubblicata. Adesso è dunque tempo di misurare questa poetessa che in circa quarant'anni, dal 1943 al 1980, pubblicò so­lo quattro libri (Capriccio, 1943; Berretto Rosso, 1965; Confiteor, 1973; II tredicesimo invitato, 1980), ciascuno dei quali meditato a lungo, e che ebbe un riconosci­mento tardivo, giunto soltanto alla pubblicazione del­l'ultimo volume, quando la Romagnoli aveva sessantaquattro anni. Eppure quando uscì da Garzanti Il tredi­cesimo invitato, alcuni fra i nostri maggiori poeti e critici - Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Luigi Baldacci, Car­lo Betocchi, Pietro Cimatti, Marco Forti e Dario Bellez­za - ne scrissero con entusiasmo su importanti giornali come di una rivelazione. Furono usati per la Romagno­li aggettivi come «grande», «misteriosa», «straordinaria». Poi, a un tratto, più nulla. Scomparsa. Come se non fosse mai esistita.


da IL TREDICESIMO INVITATO

Avvento

Mi scinderò dalla perpetua danza,
dal flusso senza fine che mi porta,
creatura di lucente libertà
- io - che piangete morta.
Invaderò la casa: un solo giro
come fa il lampo.

In consistenza d'aria
assumerò il colore d'ogni stanza.
Senza toccar le cose - non ho mani -.
Senza lasciare firme sugli specchi
- non ho respiro -.

Vi stupirà la tenda
che ferma taglia un brivido,
il vermiglio tumulto dei gerani,
lo scompiglio dei libri nell'eremo
della scansia. Poi, subito riemersi
come statue da un vento:
« Che cosa è stato » attoniti
vi chiederete. Diletti, non v'offenda
se durerà il mio avvento solo l'attimo
di rifluire via.


Capro espiatorio

Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All'aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
- senza uscita -. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un'unghia
sotto le porte). Capro espiatorio
già caduto sul fianco, otre di sangue
già mezzo vuoto - come scalci ancora
forte, mia vita.


In sogno i morti

Vengono i morti nel sogno,
ci affiancano se ne rivanno,
talvolta danno un segno - ma diviso
da noi - candela mossa dietro un vetro.
Così mio padre mi s'accende accanto
nel buio che mi fascia.
«Vieni per dare o per chiedere?» m'affanno.
«È la medesima cosa» - e in un sorriso
si spegne, come annottando sulla riva
l'acqua, che del suo viaggio fiammeggiante
non lascia nessun pegno.


Non leggerò i giornali

II giorno entra con rosa di pozzanghere
e Pasqua fra le nuvole.
Operai ripitturano la casa
che adesso ride a metà, dov'è più chiara;
d'in cima al muro si gettano la voce.
Profumi arrivano e partono. Lo giuro:
oggi non spierò nella vetrina
le mie occhiaie appassite.
Non leggerò i giornali del mattino.
Non mi metterò in croce!

Entrerò nel bar che si sbrina
in vapore vermiglio sugli specchi,
scavalcando i due cani stesi al sole
- madre e figlio. - Avrò l'aria felice.
Ordinerò un caffè, sceglierò
cartoline per amici lontani.


Da CONFITEOR

Eredi

Legati all'ombelico della terra
da troppi millenni - ora è tempo.
Spezzare l'incantesimo.
Svellersi da ogni grumo di radici.
Lavarsi da ogni sale di battesimo.
E tocca ai figli. Noi li sentiamo urlare,
li vediamo contorcersi nel fumo.
Ah, teneri, tremendi: e ancora eredi
dei nostri occhi infelici.


Da BERRETTO ROSSO

Io

Quella donna dal viso indifeso
un poco sfiorita -
che passa nello specchio
in una scolorita veste rossa,
senza fruscio, di fretta,
rialzando sul capo i capelli
con mano distratta:
quella donna dall'anima dimessa
dicono che son io.

martedì 10 ottobre 2006

Pseudobaudelaire


Pseudobaudelaire è il primo libro di Corrado Costa (1929-1991), pubblicato da Scheiwiller nel 1964 (ripubblicato nel 2002 da Editore Zona e nel 2006, in e-book, dalle E-dizioni di Biagio Cepollaro).
Nato a Mulino di Bazzano (Parma), dove con Spatola e la Niccolai diede vita alle riviste "Tam Tam" e a "Baobab", Costa visse a Reggio Emilia, esercitando la professione di avvocato. Fece parte del Gruppo 63.


I DUE PASSANTI

I due passanti: quello distinto con il vestito grigio
e quello distinto con il vestito grigio, quello con un certo
portamento elegante e l'altro con un certo portamento
elegante, uno che rideva con uno che rideva
uno però più taciturno e l'altro
però più taciturno, quello con le sue idee
sulla situazione e quello con le sue idee
sulla situazione: i due passanti: uno improvvisamente
con gli attrezzi e l'altro improvvisamente nudo
uno che tortura e l'altro senza speranza
una imprecisabile bestia una imprecisabile preda:
i due passanti: quello alto uguale e quello
alto uguale, uno affettuoso signorile l'altro
affettuoso signorile, quello che si raccomanda e
quello che si raccomanda


AUTOCRITICA

Sostenuto da Cristo, dolcemente chinato
sotto le pieghe dell'alcool, dibattuto
da voci deliranti: unica sicurezza
il mare cieco - devastato - dopo i bombardamenti
Dylan Thomas dicono sia morto per auto-
affogamento
altri invece hanno resistito fino all'8 di giugno
(ore cinque) in campo di concentramento:
una rosa selvatica portandogli Alena Tesarova
Robert Desnos è morto parlando di salvezza
e di altre cose non scritte, che dovremo
imparare con coraggio
altri ancora - per sollecitazione dei potenti –
cinque epoche fa o successive a questa - subito
sono stati tolti di mezzo: Lorca abbattuto
nel punto di maggiore pressione
del silenzio:
Tutti: non per fatalismo dialettico - sconfitti
per impersonali motivi, essendo in gioco la sorte
delle generazioni sbagliate.
Ora davanti a neo-irrisoluzioni
astuti, sordi, vittoriosi: nella stanza
i poeti vanno e vengono parlando di Trattori.


ANCORA SULLE POSSIBILITÀ PER VIVERE

Così non essere legati ad un contesto - contestare
così non aspettare revisione - restare condannati
così fuori tribù, fuori scheda o catalogo - essere salvati
come se dio nascesse preghiera per preghiera
come se ogni ostaggio impugnasse la storia
come se ogni sillaba contestasse il poema

lunedì 9 ottobre 2006

pseudorimbaud


je est une outre

sabato 7 ottobre 2006

provocazione


Una possibile tassonomia del poetico italiano potrebbe essere questa: c'è Milo De Angelis e ci sono quelli che a lui s'ispirano (si metta al posto di De Angelis qualsiasi altro fuoriclasse). Fra coloro che s'ispirano, ci sono i futuri fuoriclasse e quelli che rimarranno allievi. Al livello degli allievi, stanno gli autori con vocazione certa, ma che non s'impegnano per crescere e quelli che leggono molto e hanno qualche vocazione. Questo livello vede almeno 800-1000 poeti in circolazione. Sotto di loro ci sono autori che hanno un'idea di poesia mutuata nei rioni, a scuola, fra gli amici, ascoltando le canzoni, autori che hanno qualcosa da dire e che lo dicono andando a capo. Fra questi, ma di rado, qualcuno entra nei 1000. Gli altri, continuano invece a dire quello che hanno da dire e sono, per difetto, almeno 50000 (mettiamo 70 per comune - in Italia, di comuni, ce ne sono più di 8000). Fra i 1000 poeti riconosciuti, molti - dicevo - "assomigliano a": già questo fatto dovrebbe farci riflettere e obbligarci alla prudenza. Dovremmo studiarli meglio, vedere se è un nostro abbaglio oppure se davvero sarebbe meglio leggere l'originale. In quest'ultimo caso facciamolo e scaliamo i poeti 'somiglianti' nel livello sottostante. Rimarranno 50 autori? Bene questi saranno i poeti che dovremo promuovere, far conoscere in rete e in piazza, a scuola e in fabbrica. Sarebbe un atto utile alla poesia e toglierebbe molta confusione in giro.
Chi decide i nomi di questi 50? Risposta: quante antologie sono uscite negli ultimi trent'anni? Quanti nomi ci sono, fra i viventi, che tornano con frequenza? Partiamo da loro e stiamo con le orecchie aperte.

venerdì 6 ottobre 2006

Omar Kayyam


La saggezza sufi delle sue Quartine è la stessa che governa le nostre illuminazioni. Buongiorno notte!


*

Coloro che furono oceani di perfezione e di scienza
e per virtù rilucenti divennero Lampade al mondo,
non fecero un passo fuori di questa notte oscura:
narrarono fiabe, e poi ricaddero nel sonno.


*

Quando l'ebbro Usignolo trovò la via del Giardino
e ridente trovò il bocciolo di Rosa e la coppa del Vino,
venne, e in misterioso bisbiglio mi disse all'orecchio:
Considera bene: la vita trascorsa mai più, mai più non ritorna.


*

O Hayyām, se sei ebbro di vino, sta' lieto,
se te la spassi con belle dal volto di luna, sta' lieto.
Poi ch'ogni cosa del mondo nel nulla finisce,
pensa che tu sei nulla, e già che sei, sta' lieto.


*

Questi che ora son vecchi, e questi giovani ancora,
ognuno ansioso s'affanna correndo alla Mèta;
ma a questo antichissimo mondo, alfine, nessuno rimane.
Andarono. Andremo. Altri verranno. Ed andranno.


*

In che modo strano passa questa Carovana della Vita:
cògli quell'attimo almeno che passa in letizia.
Coppiere! A che t'addolori del dolor del domani degli altri?
Porta, presto, la coppa, ché sta per cadere la Notte.

giovedì 5 ottobre 2006

poesia ed ecologia



Tra i poeti che portano coerentemente avanti il discorso ecologista, in particolare la necessità di salvare la wilderness esterna ed interiore, pena l'autodistruttività umana, c'è Gary Snyder. Ricorda Maurizio Torretti che egli "elabora la sua filosofia e la concezione magica del ruolo del poeta proprio dallo studio appassionato del mondo degli Indiani d'America, dei loro miti e delle forme di divinazione ancora oggi radicate nelle culture amerindiane, nonché dallo studio del cinese classico e della poesia orientale [...] Nato nel 1930 a San Francisco, fin dall'adolescenza egli vive a contatto della natura e di espedienti per le strade di Portland. Studia antropologia e si specializza a Berkley in filosofie orientali. Lavora anche nel Corpo forestale americano, partecipa alla lettura pubblica al Six Gallery, assieme a J. Kerouac, W. Burroughs, P. Whalen, A. Ginsberg, M. McClure. Si trasferisce in Giappone nell'isolotto di Suwanose dove vivrà di pesca, coltivando la terra e praticando il Buddhismo Zen per quasi quindici anni. Al ritorno negli Usa scriverà alcune delle sue opere più importanti e riprenderà a viaggiare."
due poesie (assai differenti)

*
Come possono scienza-politici mangia-potere teste-di-piombo
Governo due-mondi Capitalista-Imperialista
Terzo-mondo comunista Maschio ammucchia-carte
Non-contadino jet-set burocrati
Parlare per il verde della foglia? Parlare per la terra?

*
Nel prossimo secolo,
o in quello successivo,
dicono,
ci saranno valli, pascoli
in cui ci incontreremo, se ce la facciamo.
Per scalare queste cime,
un parola per te,
per te
e per i tuoi figli:
state assieme,
imparate dai fiori,
siate lievi.

martedì 3 ottobre 2006

allegoria sul Canone


Ho trovato un videoclip che riproduce la mia idea di canone letterario.
Vi invito dunque a visitare questa pagina e a riconoscere, nel destino di ogni pallone aerostatico, la fortuna e la sfortuna del poeta.

lunedì 2 ottobre 2006

Giuseppe Piccoli


Ricorda Arnarldo Ederle, in "Poesia" n.103 del febbr. 1997 (ma ne aveva già parlato, sempre su "Poesia", nel marzo 1989) che "Giuseppe Piccoli nacque il 5 aprile 1949 a Verona. II padre era pro­fessore di latino e greco al liceo classico, la madre insegnante di musi­ca. Seguì studi classici senza però portarli a termini, dedicandosi giova­nissimo a scrivere poesia, prosa e articoli di critica letteraria per "L'Are­na". Nel settembre del 1981, in un attacco di schizofrenia, ferì il padre, che morì dopo pochi giorni, e la madre, che invece si salvò. Venne re­cluso nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia per un pe­riodo di detenzione di dieci anni. In seguito fu trasferito in altri reclusori. L'ultimo che lo ospitò fu quello di Napoli dove, nel febbraio del 1987, si tolse la vita."

Giuseppe Piccoli pubblicò in vita due raccolte di poesie, Di certe presenze di tensione (Guanda 1981) e Foglie, con prefa­zione di Maurizio Cucchi, nell'"Almanacco dello Specchio", 1983. Postu­mo è uscito, curato da Ederle, Chiusa poesia della chiusa porta (Bertani 1987). Una scelta delle sue poesie si trova ora in Cucchi, Giovanardi, Poeti italiani de secondo novecento (Mondadori 1990).
Nel numero 10 (aprile - giugno 1984) ne parlò anche L'ozio letterario (di cui Ederle era redattore), rivista legata alle edizioni "Amadeus", le quali fra l'altro pubblicarono, l'anno successivo, Atelier d'inverno di Remo Pagnanelli.
Riporto alcune poesie tratte da quel numero.


*
Nuvole sei, che il ragazzo
guarda e sorride. Sei
la fuga della nuvola sul prato

*
O luce
diurna e notturna! O pagina inconsapevole!
Cento fantasmi segnano le nove
della sera

*
Ci sarà una montagna che langue
al ghiaccio
e alle tue lacrime di perla?
Ci sarà un animale che fuga
il tuo fantasma in bianco colore?
Della città di mare e di luna
resiste il durissimo lamento:
viso che gioca e che guarda
e strano còmpita poesie.

*
La cosa mortale detta amore
indugia tra le case nella sera.

La sera giunge con le porte chiuse.

Alla pelle la febbre s'arroventa:
è bianca la tua pelle e trema lenta.

*
Ossa e ossa e oggetti e tenaglie
per catturare quest'ansia:
poi lungo le scale lasciare
un vestito senza corpo, spolpato.