Variazioni sul tema del Rosso
I
Per
entrare nell’agire estetico ed etico di Elia Inderle, in particolare rispetto alla
scelta del rosso scarlatto, conviene partire dal soggetto rappresentato, Pier
Paolo Pasolini, un intellettuale che sempre si espose, prendendo posizione
critica nei confronti del neocapitalismo e dell’industria dei consumi. Lo fece
sino morirne: sotto questo profilo, il suo controverso assassinio, la notte tra
l’1 e il 2 novembre del 1975, ha la forza simbolica del martirio, patito da chi
si è sacrificato per noi, vittime di un meccanismo sociale stritolante. La
morte violenta, e dunque il rosso sangue, sono inscritti nella sua biografia al
pari di quella dei santi cristiani, con ciò trasformando la sua vita biologica
e sociale di cittadino della Repubblica in un exemplum di persecuzione moderna.
Il legame tra il rosso, il sangue e l’autobiografia ce lo suggerisce lo stesso
Pasolini sin dalle sue prime opere, per ribadirlo nell’appunto 41 di Petrolio,
libro postumo e profetico, quando il protagonista “sogna il sangue”, che “è
rosso (cioè comunista)”. Il sangue, aggiunge, porta terrore a “tutta la
borghesia italiana anticomunista”, ma anche, nella stessa borghesia,
“indifferenza”, pervasa com’è del “brado pragmatismo”. Il passo avvicina nel
contempo il rosso all’ideologia antiborghese: il rosso comunista, ma in una
stagione, gli anni Settanta, in cui le ideologie avevano ancora la capacità di
indicare una direzione. Nel 2023, la borghesia, con il suo terrore
anticomunista e l’indifferenza verso tutto ciò che non procura profitto, è
rimasta; il comunismo invece è morto, almeno nella versione marxista
dell’antitesi operaia entro la dialettica del materialismo storico.
II
Se
da un verso la lettura più immediata del lavoro di Inderle ci dice che il rosso
mima l’atto violento del potere, di cui il sangue è l’effetto più drammatico,
dall’altro, più profondamente, il colore può essere letto soltanto come qualcosa
di estraneo alla superficie su cui è steso. Un’estraneità dalla valenza
sacrilega se davvero l’immagine di Pasolini divenne sin da subito icona di un
martire. Il colore, sporcando l’immagine, quella specifica immagine, ha così il
carattere del gesto blasfemo. Questa seconda soluzione, che non esclude la
prima, non segnala un gesto irriverente, iconoclasta, bensì serve appunto a
metterci in allerta sui pericoli dell’idolatria, sul rischio di ridurre il
pensiero pasoliniano all’agire del corpo del poeta, di ricondurlo al martirio
subìto, anziché, con fatica, coglierne le importanti acquisizioni, ricavate dai
suoi libri e dai suoi film. Quel rosso vuole insomma rompere il facile
meccanismo dell’identificazione passiva con l’eroe e chiede invece l’impegno di
un viaggio che ne attraversi l’opera, un viaggio verso la consapevolezza di che
cosa sia diventato l’uomo nel tardo capitalismo, come sempre cercò di fare
Pasolini.
S’intuisce
che questa complicazione è inscritta nel progetto, rilevando che uno dei film prediletto
da Inderle, Sangue di un poeta di Jean Cocteau, mette in scena due
figure complesse e imprescindibili per comprendere la contemporaneità: la
metamorfosi e il labirinto. Queste possono essere tradotte come il continuo
mutare / intersecarsi dei livelli di realtà e lo sfocarsi dei piani cartesiani,
in un divenire straniante per cui il soggetto deve di continuo prendere le
misure dello spazio-tempo in cui opera. Leggere Pasolini comporta questo:
rimettersi a una dimensione plurale, in cui il corpo e il pensiero, la
biografia individuale e collettiva, il sangue del Cristo e del ribelle, il nero
del neofascismo, la libertà e la coercizione appartengono al medesimo organismo
cangiante e labirintico, di cui Pasolini ci offre una mappa potenzialmente
salvifica. A patto, come suggerisce Inderle, che lo si tolga dalla teca in cui
è stato collocato, e lo si legga davvero, a costo di farci del male. Il rosso
sangue è il nostro quando usciamo dal recinto e incontriamo l’altro senza
protezioni.
III
Da
artista visivo, Elia Inderle cerca la profondità nella superficie. Una
superficie – come detto – labirintica, metamorfica. Il dato di partenza è
inevitabilmente percettivo: colpisce quel rosso accecante, steso con una certa
aggressività su immagini in bianco e nero, che produce uno shock retinico, un
cortocircuito sensoriale, un contrasto tra l’opaco delle figure
umane e la luce densissima del colore. Questa percezione conflittuale fra la
tonalità dimessa dei grigi e il rosso sgargiante non si esaurisce tuttavia
nella valenza estetica, ma ne assume immediatamente una filosofica: le vite
rappresentate dalle foto, il tempo che si mostra in quelle vite, trova il suo
elemento interattivo nella piattezza luminosa del rosso, che ha una dimensione
soltanto spaziale: qui il tempo scompare, per lasciare essere la vibrazione
cromatica alla sua massima potenza. Un cromatismo che rinvia alla passionalità
anziché al sangue, all’intensità della vita, anziché alla morte (viene facile
ricordare il primo libro di saggi di Pasolini, Passione e ideologia, i
due cardini del suo fare poetico e intellettuale). Il materiale povero scelto
da Inderle – il bianco e nero su carta dei freme – ci restituisce
ulteriormente il tentativo paradossale di fissare il tempo della vita nella sua
miseria, che il rosso rivitalizza, come un catalizzatore che riattivi un
processo decaduto. In altre parole, il rosso-tutto-spazio agisce sulle
immagini-tempo-opaco con effetto di potenziamento, anche se nessuna di queste è
leggibile completamente. Anzi: proprio la cancellazione di un margine o di un
tratto casuale permette a quanto rimane di realizzare il proprio compito, di
essere testimonianza del passaggio pasoliniano nella temporalità storica. In
questo modo si desacralizza l’immagine, restituendola nella dimensione umana,
teneramente caduca.
Il
rosso, sporcando l’immagine e rivitalizzandone l’opacità, riporta l’attenzione
sia sul soggetto rappresentato e sia sulla vita in quanto precesso diveniente
all’interno di uno spazio labirintico dove ogni scelta comporta un’assunzione
di responsabilità: all’idolatria e al consumo mass-mediatico dell’immagine
pasoliniana, Inderle contrappone questa prospettiva nuova, inedita, non
garantita; un insegnamento mutuato forse dai maestri della
ri-contestualizzazione, non ultimo Jacque Cocteau.
IV
Ulteriore
ipotesi, contraddittoria rispetto agli assunti precedenti, ma possibile nella
misura cui la contraddizione appartiene all’arte, come ci insegnano per esempio
il Dadaismo e Simone Weil, ma anche le stesse scienze novecentesche, non ultima
la fisica quantistica. Consideriamo il rosso come materia coprente, come
volontà dell’artista di nascondere parte dell’immagine. Non più rosso sangue né
rosso passione che spazializza le tensioni amplificando il bianco e nero delle
vite rappresentate, né la pedagogia intrinseca in queste operazioni, bensì il
tentativo di cancellare la presenza ostinata di quelle vite, di negarcele con
volontà sadica, se non tirannica. Appare evidente che quelle vite non
soccombono, ma resistono alla negazione, all’atto massimamente libero
dell’artista che, creando, diventa simile a Dio anche nella punizione, nel
toglierci quanto ci è dovuto. Nella dinamica al massacro della volontà di
potenza tra principio di vita e principio di morte, la vita sopravanza perché
il tempo-vita ha uno spessore emotivo ed esperienziale che la
morte-senza-tempo, la morte eterna non ha il privilegio di possedere. Se nel
paragrafo precedente, il rosso-tutto-spazio rinvigoriva il tempo-memoria, in
questo nuovo assunto, il rosso-negazione, lasciando aperto uno o più spiragli
al tempo-vita offerto dalla foto, ha la peggio.
Il
dio-cancellatore di cui si è fatto menzione ci ricorda che, ogni volta che si
prende la parola, si esercita violenza sul sistema in cui si opera. Dire è
affermarsi su un campo di forze che, impotente, si ritrae, in attesa di
rispondere, se ne ha il vigore o di soccombere. L’arte in genere enfatizza
questo principio, in nome del potere che l’atto creativo possiede. Un atto
arbitrario, che non deve essere giustificato, come capita appunto in un sistema
tirannico. Sarebbe interessante verificare se anche l’immagine più banale
resista all’annullamento, se l’oggetto violato acquisti dignità proprio in
funzione dello sforzo del carnefice di negarlo. Le neuroscienze darebbero una
risposta affermativa, in virtù del fatto che lo spettatore parteggia per chi
subisce ingiustizia, il quale diventa subito un eroe positivo, al di là della
situazione iniziale.
V
Il
Cristo cancellatore è un romanzo di Emilio Isgrò, poeta visivo italiano.
Egli usa la cancellatura per proteggere simbolicamente dalle intemperie della
storia ciò che sta sotto, dandogli in tal modo ulteriore valore, mettendolo in
rilievo in quanto assente. Non ci pare tuttavia sia questa una delle
intenzioni fondanti dell’agire di Elia Inderle; vale piuttosto quanto detto
sinora: la polisemantizzazione del colore, a indicare la violenza, la
manomissione del meccanismo idolatrico; la ri-contestualizzazione e la
rivitalizzazione della superficie luminosa, ma anche la necessità di pensare ai
materiali dell’arte, per sviluppare un pensiero che parta dalla superficie (in
questo caso piana, di una certa dimensione e costituita da materiale povero). È
forse quest’ultimo assunto il livello primario in cui l’agire di Inderle trova
realizzazione: pensare lo spazio visivo indipendentemente dal contenuto delle
foto, per riorganizzarlo, agendo sulle tonalità di grigio con quel rosso
prezioso, che è luce e potenza, come aveva già fatto nei suoi lavori precedenti
su Kerouac
e Burroughs. In questo senso, il rosso è un segno identitario, è la sua firma
(e anche un debito riconosciuto verso i suoi maestri, Hermann Nitsch, per
esempio), è il corpo tutto condensato nel gesto, da pittore che vive il suo
tempo migliore nell’happening, nell’incontro-scontro con il colore, senza
dispiegamento ulteriore del senso, evitando – almeno in prima istanza – l’articolazione
barocca delle ridondanze semantiche: il rosso distende temporaneamente la piega
del nascosto, del significato, sino a toglierla: è, come detto, puro spazio
senza esperienza. Incontrando l’immagine, tuttavia, quel rosso ripone la piega
in essere, increspando la superficie, complicandola, ma sempre entro uno spazio
finito dove il riverbero non diventa mai esibizione narcisistica né
proliferazione delle differenze. In questo gioco di distensione e contrazione
del senso, l’opera prende posto nell’orizzonte visivo, emotivo ed intellettivo
dello spettatore, che viene così convocato dinanzi alla complessità dell’opera
stessa, in quella stratificazione plurima del senso evidenziata, per via
ipotetica, in questa introduzione.
Stefano
Guglielmin, aprile 2023