sabato 3 maggio 2025

Elia Inderle, catalogo


 Variazioni sul tema del Rosso

 

 

I

 

Per entrare nell’agire estetico ed etico di Elia Inderle, in particolare rispetto alla scelta del rosso scarlatto, conviene partire dal soggetto rappresentato, Pier Paolo Pasolini, un intellettuale che sempre si espose, prendendo posizione critica nei confronti del neocapitalismo e dell’industria dei consumi. Lo fece sino morirne: sotto questo profilo, il suo controverso assassinio, la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, ha la forza simbolica del martirio, patito da chi si è sacrificato per noi, vittime di un meccanismo sociale stritolante. La morte violenta, e dunque il rosso sangue, sono inscritti nella sua biografia al pari di quella dei santi cristiani, con ciò trasformando la sua vita biologica e sociale di cittadino della Repubblica in un exemplum di persecuzione moderna. Il legame tra il rosso, il sangue e l’autobiografia ce lo suggerisce lo stesso Pasolini sin dalle sue prime opere, per ribadirlo nell’appunto 41 di Petrolio, libro postumo e profetico, quando il protagonista “sogna il sangue”, che “è rosso (cioè comunista)”. Il sangue, aggiunge, porta terrore a “tutta la borghesia italiana anticomunista”, ma anche, nella stessa borghesia, “indifferenza”, pervasa com’è del “brado pragmatismo”. Il passo avvicina nel contempo il rosso all’ideologia antiborghese: il rosso comunista, ma in una stagione, gli anni Settanta, in cui le ideologie avevano ancora la capacità di indicare una direzione. Nel 2023, la borghesia, con il suo terrore anticomunista e l’indifferenza verso tutto ciò che non procura profitto, è rimasta; il comunismo invece è morto, almeno nella versione marxista dell’antitesi operaia entro la dialettica del materialismo storico.

 

 

II

 

Se da un verso la lettura più immediata del lavoro di Inderle ci dice che il rosso mima l’atto violento del potere, di cui il sangue è l’effetto più drammatico, dall’altro, più profondamente, il colore può essere letto soltanto come qualcosa di estraneo alla superficie su cui è steso. Un’estraneità dalla valenza sacrilega se davvero l’immagine di Pasolini divenne sin da subito icona di un martire. Il colore, sporcando l’immagine, quella specifica immagine, ha così il carattere del gesto blasfemo. Questa seconda soluzione, che non esclude la prima, non segnala un gesto irriverente, iconoclasta, bensì serve appunto a metterci in allerta sui pericoli dell’idolatria, sul rischio di ridurre il pensiero pasoliniano all’agire del corpo del poeta, di ricondurlo al martirio subìto, anziché, con fatica, coglierne le importanti acquisizioni, ricavate dai suoi libri e dai suoi film. Quel rosso vuole insomma rompere il facile meccanismo dell’identificazione passiva con l’eroe e chiede invece l’impegno di un viaggio che ne attraversi l’opera, un viaggio verso la consapevolezza di che cosa sia diventato l’uomo nel tardo capitalismo, come sempre cercò di fare Pasolini.

 

S’intuisce che questa complicazione è inscritta nel progetto, rilevando che uno dei film prediletto da Inderle, Sangue di un poeta di Jean Cocteau, mette in scena due figure complesse e imprescindibili per comprendere la contemporaneità: la metamorfosi e il labirinto. Queste possono essere tradotte come il continuo mutare / intersecarsi dei livelli di realtà e lo sfocarsi dei piani cartesiani, in un divenire straniante per cui il soggetto deve di continuo prendere le misure dello spazio-tempo in cui opera. Leggere Pasolini comporta questo: rimettersi a una dimensione plurale, in cui il corpo e il pensiero, la biografia individuale e collettiva, il sangue del Cristo e del ribelle, il nero del neofascismo, la libertà e la coercizione appartengono al medesimo organismo cangiante e labirintico, di cui Pasolini ci offre una mappa potenzialmente salvifica. A patto, come suggerisce Inderle, che lo si tolga dalla teca in cui è stato collocato, e lo si legga davvero, a costo di farci del male. Il rosso sangue è il nostro quando usciamo dal recinto e incontriamo l’altro senza protezioni.

 

 

III

 

Da artista visivo, Elia Inderle cerca la profondità nella superficie. Una superficie – come detto – labirintica, metamorfica. Il dato di partenza è inevitabilmente percettivo: colpisce quel rosso accecante, steso con una certa aggressività su immagini in bianco e nero, che produce uno shock retinico, un cortocircuito sensoriale, un contrasto tra l’opaco delle figure umane e la luce densissima del colore. Questa percezione conflittuale fra la tonalità dimessa dei grigi e il rosso sgargiante non si esaurisce tuttavia nella valenza estetica, ma ne assume immediatamente una filosofica: le vite rappresentate dalle foto, il tempo che si mostra in quelle vite, trova il suo elemento interattivo nella piattezza luminosa del rosso, che ha una dimensione soltanto spaziale: qui il tempo scompare, per lasciare essere la vibrazione cromatica alla sua massima potenza. Un cromatismo che rinvia alla passionalità anziché al sangue, all’intensità della vita, anziché alla morte (viene facile ricordare il primo libro di saggi di Pasolini, Passione e ideologia, i due cardini del suo fare poetico e intellettuale). Il materiale povero scelto da Inderle – il bianco e nero su carta dei freme – ci restituisce ulteriormente il tentativo paradossale di fissare il tempo della vita nella sua miseria, che il rosso rivitalizza, come un catalizzatore che riattivi un processo decaduto. In altre parole, il rosso-tutto-spazio agisce sulle immagini-tempo-opaco con effetto di potenziamento, anche se nessuna di queste è leggibile completamente. Anzi: proprio la cancellazione di un margine o di un tratto casuale permette a quanto rimane di realizzare il proprio compito, di essere testimonianza del passaggio pasoliniano nella temporalità storica. In questo modo si desacralizza l’immagine, restituendola nella dimensione umana, teneramente caduca.

 

Il rosso, sporcando l’immagine e rivitalizzandone l’opacità, riporta l’attenzione sia sul soggetto rappresentato e sia sulla vita in quanto precesso diveniente all’interno di uno spazio labirintico dove ogni scelta comporta un’assunzione di responsabilità: all’idolatria e al consumo mass-mediatico dell’immagine pasoliniana, Inderle contrappone questa prospettiva nuova, inedita, non garantita; un insegnamento mutuato forse dai maestri della ri-contestualizzazione, non ultimo Jacque Cocteau.

 

 

IV

 

Ulteriore ipotesi, contraddittoria rispetto agli assunti precedenti, ma possibile nella misura cui la contraddizione appartiene all’arte, come ci insegnano per esempio il Dadaismo e Simone Weil, ma anche le stesse scienze novecentesche, non ultima la fisica quantistica. Consideriamo il rosso come materia coprente, come volontà dell’artista di nascondere parte dell’immagine. Non più rosso sangue né rosso passione che spazializza le tensioni amplificando il bianco e nero delle vite rappresentate, né la pedagogia intrinseca in queste operazioni, bensì il tentativo di cancellare la presenza ostinata di quelle vite, di negarcele con volontà sadica, se non tirannica. Appare evidente che quelle vite non soccombono, ma resistono alla negazione, all’atto massimamente libero dell’artista che, creando, diventa simile a Dio anche nella punizione, nel toglierci quanto ci è dovuto. Nella dinamica al massacro della volontà di potenza tra principio di vita e principio di morte, la vita sopravanza perché il tempo-vita ha uno spessore emotivo ed esperienziale che la morte-senza-tempo, la morte eterna non ha il privilegio di possedere. Se nel paragrafo precedente, il rosso-tutto-spazio rinvigoriva il tempo-memoria, in questo nuovo assunto, il rosso-negazione, lasciando aperto uno o più spiragli al tempo-vita offerto dalla foto, ha la peggio.

 

Il dio-cancellatore di cui si è fatto menzione ci ricorda che, ogni volta che si prende la parola, si esercita violenza sul sistema in cui si opera. Dire è affermarsi su un campo di forze che, impotente, si ritrae, in attesa di rispondere, se ne ha il vigore o di soccombere. L’arte in genere enfatizza questo principio, in nome del potere che l’atto creativo possiede. Un atto arbitrario, che non deve essere giustificato, come capita appunto in un sistema tirannico. Sarebbe interessante verificare se anche l’immagine più banale resista all’annullamento, se l’oggetto violato acquisti dignità proprio in funzione dello sforzo del carnefice di negarlo. Le neuroscienze darebbero una risposta affermativa, in virtù del fatto che lo spettatore parteggia per chi subisce ingiustizia, il quale diventa subito un eroe positivo, al di là della situazione iniziale.

 

 

V

 

Il Cristo cancellatore è un romanzo di Emilio Isgrò, poeta visivo italiano. Egli usa la cancellatura per proteggere simbolicamente dalle intemperie della storia ciò che sta sotto, dandogli in tal modo ulteriore valore, mettendolo in rilievo in quanto assente. Non ci pare tuttavia sia questa una delle intenzioni fondanti dell’agire di Elia Inderle; vale piuttosto quanto detto sinora: la polisemantizzazione del colore, a indicare la violenza, la manomissione del meccanismo idolatrico; la ri-contestualizzazione e la rivitalizzazione della superficie luminosa, ma anche la necessità di pensare ai materiali dell’arte, per sviluppare un pensiero che parta dalla superficie (in questo caso piana, di una certa dimensione e costituita da materiale povero). È forse quest’ultimo assunto il livello primario in cui l’agire di Inderle trova realizzazione: pensare lo spazio visivo indipendentemente dal contenuto delle foto, per riorganizzarlo, agendo sulle tonalità di grigio con quel rosso prezioso, che è luce e potenza, come aveva già fatto nei suoi lavori precedenti su Kerouac e Burroughs. In questo senso, il rosso è un segno identitario, è la sua firma (e anche un debito riconosciuto verso i suoi maestri, Hermann Nitsch, per esempio), è il corpo tutto condensato nel gesto, da pittore che vive il suo tempo migliore nell’happening, nell’incontro-scontro con il colore, senza dispiegamento ulteriore del senso, evitando – almeno in prima istanza – l’articolazione barocca delle ridondanze semantiche: il rosso distende temporaneamente la piega del nascosto, del significato, sino a toglierla: è, come detto, puro spazio senza esperienza. Incontrando l’immagine, tuttavia, quel rosso ripone la piega in essere, increspando la superficie, complicandola, ma sempre entro uno spazio finito dove il riverbero non diventa mai esibizione narcisistica né proliferazione delle differenze. In questo gioco di distensione e contrazione del senso, l’opera prende posto nell’orizzonte visivo, emotivo ed intellettivo dello spettatore, che viene così convocato dinanzi alla complessità dell’opera stessa, in quella stratificazione plurima del senso evidenziata, per via ipotetica, in questa introduzione.

 

 

Stefano Guglielmin, aprile 2023

 

lunedì 8 luglio 2024

Marco Flores Fioramanti su "Un regno di ciechi senza doni"


 Marco Flores Fioramanti recensisce Un regno di ciechi senza doni, cogliendone la forza metamorfica e la riflessione sull'identità tiranna, che mai vorrebbe uscire di scena. Un grande grazie all'artista romano e ad aboutArtOnline che ci ospita.

La trovate qui




martedì 21 maggio 2024

Poesia e Luogo: l'esperienza della parola poetica


Scrivere poesia ha molto a che fare con l’abitare il Luogo, con il farne esperienza. Luogo che alcuni poeti chiamano origine: fare esperienza dell’origine, dicono, è garanzia di autenticità. Penso a Pascoli, a Saba, a Pavese, a Pasolini. In loro, origine è fondamento, ciò che giustifica la parola autentica, quella che ci riguarda propriamente. Affinché Origine sia Luogo, tuttavia, così come lo intendo in questa riflessione, occorre pensarla slegata da qualsiasi metafisica, da qualunque struttura oggettiva, esterna alla propria collocazione, appunto perché, ontologicamente, l’essere qui del mortale e il Luogo si danno insieme, in una radicalità che risponde o, heideggerianamente, cor-risponde al bisogno di stare al centro di qualcosa. L’uomo, infatti, è un essere mortale che esperisce, sin dal principio, la dislocazione dal centro e il lutto per questa esperienza. La presenza, in altre parole, è trascinata nel luogo, portata fuori nell’aperto spaesante, in una vertigine che chiede di essere ricomposta: non si fa esperienza del centro, bensì del continuo cadere fuori dal cerchio e del tentativo di restare in piedi.

 

Ogni volta che il poeta parla, ogni volta che chiunque di noi parla davvero (non ripete il già detto, ma si misura con la vertigine della propria esperienza finita), lo fa da un Luogo-origine dislocante, da uno scarto dalla continuità anonima e collettiva, che rende la sua parola originaria ossia avveniente per la prima volta nel luogo in cui esiste. E il luogo è per la prima volta pronunciabile, prendendo la forma del paesaggio, del sentimento, della storia e della logica, ordinati o devastati o addirittura assenti a seconda della cesura in cui uomo e luogo, traspropriandosi, diventano linguaggio. Anche il rifiuto di dare forma al testo, di leggibilità, risponde – prima che a una scelta di metodo – a una precisa straspropriazione di mortale e Luogo. Anche questa è un tentativo di tradurre in linguaggio la propria dislocazione ontologica. Ed è lì, per tutti, in questa tensione-torsione che l’esperienza significativa prende corpo. La poesia parla di questa avventura dis-locante anche quando nomina il mondo; altrimenti diventa ancella di altre discipline, figura di secondo grado, strumento di dominio, gioco inessenziale.


Qui il video.


con le parole di Lucrezio (trad. di Milo De Angelis) Maurizio Landini Stefano Guglielmin Ana Garría Laura Di Corcia Francesca Saladino regia fotografia musiche montaggio post-produzione Carlotta Cicci e Stefano Massari


zona / disforme

 


giovedì 14 dicembre 2023

Silvia Comoglio (rec. di R. Uberti)



Silvia Comoglio – Il tempo ammutinato (partiture) – Book Editore, 2023

Roberto Uberti

 

Per i tipi di Book Editore, in una confezione grafica pregevole ed elegante, è uscito a ottobre 2023 Il tempo ammutinato (partiture) di Silvia Comoglio, feconda poetessa italiana – è, questa, la sua decima pubblicazione – il cui lavoro poetico si conferma ancora una volta caratterizzato dal tenersi alla larga da certa superflua facondia che, invece, contraddistingue spesso la confusa scena poetica contemporanea.

“Il tempo ammutinato (partiture)” è un’opera solida, rigorosa, nient’affatto indulgente al facile fronzolame lessicale con cui, anche in certa sottopoesia, si insegue un effetto wow! per il solo gusto di procacciarsi qualche facile quanto effimero like. Opera proprio per questo sorprendente, quasi atipica, ma di un’atipicità salutare e, vedremo, innovativa, in cui si rilevano diversi piani di lettura interdipendenti.

L’impianto dell’opera si articola in sei sezioni, sviluppate con la cura di un librettista d’opera già a partire dai loro iconici titoli:  

1.“ma, fiorisce dunque la parola”

2. “tu, allora, fiorisci

3.“sottile, a microchiarore!

4.“silhouette

5.“Ì-mmortale   proclamo te”

6.“… incognite tue rose, plasmate –

Che “Il tempo ammutinato (partiture)” possa essere approcciato come un libretto d’opera è il primo dei piani di lettura che stiamo per esaminare. Espediente non nuovo per Silvia Comoglio, che aveva già sperimentato questo ausilio anche visuale nella sua precedente opera “sottile, a microchiarore!” (di cui infatti ripropone il titolo di una sezione quasi a sottolinearne l’evoluzione), molte delle composizioni sono non a caso introdotte dal frammento di un pentagramma, in cui appare il più delle volte una singola, sperduta nota e talora, addirittura, soltanto un segno di pausa, significando arditamente, ma saggiamente, che il silenzio è esso stesso una forma di suono. Le composizioni introdotte da singole note (o dal silenzio) vivono di una melodia appena accennata, sulla quale giocare quasi in mono-tono la lettura (e, sarebbe meglio dire, l’ascolto). Dove invece non troviamo il frammento di pentagramma troviamo, spesso, l’impostazione armonica della composizione, declinata con la descrizione musicale ortodossa (“In sol maggiore”, “In fa diesis”, “In si minore”), che invita il lettore a un esercizio più complesso, quello di passare dalla melodia monotonica all’armonia polifonica e trasfigurarsi in direttore d’orchestra, dovendo ricercare nel proprio animo l’interpretazione tonale più confacente al significante e al significato della composizione. È, anche questo, un prezioso espediente, giacché agevola in misura non trascurabile l’orecchio interiore: così sappiamo in anticipo, per esempio, che una composizione “In si minore” avrà quell’aria dimessa e semplice che si addice a una ballata melanconica, mentre una composizione “In fa diesis” disporrà a un’atmosfera più solenne e assertiva, che ciascuno dirigerà a proprio talento.

Silvia Comoglio supera pertanto la semplice ricerca di sonorità nella parola e della parola, come peraltro giustamente notato unanimemente da coloro che hanno commentato il suo lavoro, portando piuttosto il lettore-ascoltatore nel golfo mistico della propria interiorità e affidandogli addirittura la bacchetta con la quale dirigere la propria intima orchestra.

Un secondo piano di lettura è dato da quella che potremmo chiamare “rivoluzione comogliana della sottrazione”. Silvia Comoglio, in netta controtendenza con il gusto contemporaneo del sovrabbondante, dell’eccessivo, dell’ostentazione aggressiva, concentra le proprie energie poetiche sul togliere anziché sull’aggiungere, sul celare anziché sul mostrare. È dunque, la sua, una poetica della spoliazione, dove tuttavia, lungi dall’impoverirsi, le parole mirabilmente si dilatano proprio grazie all’aver tolto parole. Leggiamo, per esempio, “schiocca – a volo – di sbuio lucente / la terra di nana – ombra – dei fiori?” in cui la domanda emerge con maggiore decisione proprio a causa delle parole che sono state estirpate, parole che hanno lasciato cicatrici così gibbose da diventare esse stesse, nella loro testimonianza dell’essere segnaposti di qualcosa che non c’è più, parole invisibili e per questo, se possibile, ancora più dure, intense, aspre in molti casi.

Oppure ancora: “amo il solo amare che appare in orizzonte / del tutto senza ciglia : terra comparsa alla mia porta, / cóme, come mondo, ai márgini del mondo”, versi in cui le assenze verbali sono così discrete da essere necessarie. È una poetica della sottrazione che somiglia a una stanza in cui, alle pareti, sono visibili i contorni rarefatti di quadri ivi non più appesi. È proprio la loro assenza a farli presenti, sono proprio gli sbaffi rimasti a suggellare per sempre la loro esistenza. Non importa più cosa quei dipinti raffigurassero, né dove siano finiti: importa invece che quei dipinti fossero esistiti in quel luogo e non altrove, silenti testimonianze di un tempo che, nella sua inesorabilità, continuamente muta l’assetto dell’universo.

Ed è proprio questo il terzo piano su cui condurre il rapporto con l’opera: la lettura del tempo. Sfida difficile, quella raccolta da Silvia Comoglio, di parlare del tempo per attribuirgli una capacità inedita e inaudita, ovvero quella di ammutinarsi. Dobbiamo scendere molto in profondità nella parola poetica di Silvia Comoglio per cogliere in cosa consista questo ammutinamento.

Che lo si interpreti come qualcosa di lineare o di circolare, che lo percepisca come qualcosa di statico entro cui si muove lo spazio o come qualcosa di dinamico da cui lo spazio viene attraversato, il tempo investe noi mortali con la sua natura di invincibile regolatore dell’evoluzione della vita, il supremo elemento entro cui, e a causa di cui, la condizione umana vive la propria condizione di perenne trasformazione. La quinta e penultima sezione dell’opera (ma la sesta e ultima è costituita soltanto da una composizione brevissima e sottilmente angosciosa che sigilla, quasi con un gemito apocrifo, la martoriata esperienza del tempo) è dedicata a scandagliare l’intuizione dell’ammutinamento del tempo. Non certo all’improvviso: già diverse pagine prima l’autrice aveva avviato il proprio percorso di rilettura del tempo proponendo, sotto un frammento di pentagramma privo di note, come sospendendo il respiro lirico, una possibile relazione tra immortalità e ammutinamento del tempo: “í-mmortale  proclamo te / nel tempo ammú-tinato / * “.

Proprio questa relazione è la chiave che Silvia Comoglio offre per leggere correttamente cosa sia questo ammutinamento del tempo. Contro cosa, o contro chi, il tempo si ammutina? E perché? Leggendo in profondità la sezione si viene implacabilmente investiti dal senso di inadeguatezza in cui la condizione umana geme continuamente, sottoposta alla legge della trasformazione continua e della mortalità. Soggetto colpevole di infliggere tale sofferenza è il tempo, che, riconoscendosi reo, alfine si ammutina a se stesso nel bisogno di collusione con l’essere umano, torturato dalla sua condizione di instabilità. Consapevole di essere veicolo di trasformazione continua e di impedire pertanto la felice fissità di ciò che è immortale, il tempo reagisce ribellandosi alla sua stessa natura: il suo è un bisogno di donare salvezza e non dolore, liberazione e non prigionia, immortalità e non finitezza. Il tempo diventa allora un soggetto pensante e deliberante che viene in soccorso all’infelicità umana decidendo, atto inaudito, di ammutinarsi contro se stesso.

Del tutto inedita appare, nella storia della letteratura, questa solidarietà del tempo con gli aspetti esistenzialmente mutevoli dell’essere umano. E ancor più inedito il suo assoggettarsi ai limiti controversi della vita per offrire il suo impossibile sogno (Comoglio lo chiama “apice di sete”) come unica soluzione (“il chiavistello”) capace di disserrare l’impenetrabile porta che separa mortalità da immortalità. Drammatico, nel fluire dei versi, il rapporto del tempo ammutinato con Dio: “… nel / relitto di dio il de- / litto del tempo?”, ove Silvia Comoglio propone un finissimo parallelo tra l’esito dell’ammutinarsi del tempo (cioè il suo delitto) e ciò che rimane (il relitto) di Dio: da tale delitto, dall’ammutinamento del tempo, null’altro resta se non una nuova condizione di immortalità, prerogativa appunto di Dio, che viene finalmente estesa a tutti gli esseri umani liberati dal tempo.

A ben guardare, l’ammutinarsi del tempo equivale al suo estremo sacrificio, al suo suicidio: ecco che il tempo assume quindi l’eroismo di un kamikaze che sceglie di porre fine alla propria esistenza per evitare una sconfitta o, meglio ancora, per vincere la sua battaglia contro la finitezza, donando quell’immortalità impossibile fintantoché esso è in vita.

Ma perché farlo? Perché il tempo, con intuizione nuova e sorprendente, viene dipinto da Silvia Comoglio non come un’astrazione indifferente ai destini storici, ma come un eroe premuroso e coraggioso, che prende a cuore le sorti dell’universo per superarne le infinite mutazioni rendendolo immortale (e, per questo, si am-mutina, a-mutandis, ribellione contro il mutamento). Le numerose domande di cui è disseminata l’opera (se ne contano ben 79!) sono domande poste dal tempo all’essere umano, quasi a chiedere sostegno e conforto nel sacrificio di grazia che sta per compiere ammutinandosi. Significativa per esempio la domanda “(e): la grazia  del tempo ammutinato / è il fiore  spaccato a vita?”, che si completa con “(ma): è offerta, allora, / il multiplo di fiore?”, dove osserviamo questo tenero bisogno del tempo di essere rassicurato, di essere incoraggiato affinché la sua estrema offerta generi una fioritura moltiplicata e perenne.

Ultimo, ma non ultimo piano di lettura, le 79 domande dell’opera, in cui emerge con chiarezza la maturità del lavoro poetico di Silvia Comoglio e in cui ci si aspetterebbero quindi dei punti fermi, delle certezze. Sorprendentemente invece, Silvia Comoglio scombina le carte e dissemina la sua raccolta di domande, che testimoniano una maturità tutt’altro che finita, tutt’altro che definita, anzi più che mai irrequieta e per questo ancora generativa e creatrice.



In fa diesis

 

 nostro amore, amore, sono gl’occhi chiusi di dimora ―

“nostro amore, amore, è la rosa plasmata a dismisura,

terra che occupa se stessa  germogliando!  in acque di silenzio,

in vertici a dimora di un lungo solo bacio, perfetto, di ―

ventura

 

(... predetta eternità? dove, la casa,

metti dentro casa, e l’alba ―

tutta fuori casa, e il sogno, sopra,

sopra casa, e sotto, sotto casa la ―

bugia, dura, di bagliore

 

... ma la casa, invece, quella pellegrina, non è casa ―

tolta dalla bocca? c, a, s, a  nate da un tempo da svuotare?

non eterno? non predetto?

 

... la casa pellegrina che tolta dalla bocca

ha mille, mille terre, sfogliate  a sopracciglio

nella notte  tutta d’oro)

 

 

 

In do maggiore

 

fiori contro fiori gli assoli di gennaio

... modo, modo eterno, di dire e sillabare

sono stelo  - e ombra mite a suono

 

(amo il solo amare che appare in orizzonte

del tutto senza ciglia : terra comparsa alla mia porta,

cóme, come mondo, ai márgini del mondo

 

... qualsivoglia-tuo-reame  terríbile e vivente ...)

 

 

 

In sol maggiore

 

stanotte  sono  chi racconto : pausa

disgiunta da memoria : vera rosa ―

ricurva  di follia ―

 

(generarti a nome del mio tempo fu l’unico segreto,

del labbro, appena, fessurato ...

 

... allora, fu detto, è acuta forma di radice

lo sguardo  appena srotolato  in sillabe di nomi

incessanti  e già caduti

 

... rose, ritorte di sibille, di mondi ―

a voci irregolari, leggermente, negl’occhi, arti-

colate ...

 

... la distanza tra sillaba e sibilla è allora ―

mantice di casa  a luce soffiata  inter-mittente?

 

fui  qualsivoglia-tuo-reame  terríbile e vivente,

l’urgenza che prego di guardare nel dono del  suo peso ...)

 

 

 


    í-mmortale  proclamo te

                  nel tempo  ammú-tinato

 

                  *

 

(… iddio disceso a dono

fin dove, in ápice di sete,

la terra tu síllabi a deriva?


Silvia Comoglio, laureata in filosofia, ha pubblicato le sillogi Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice, 2017), sottile, a microchiarore! (Edizioni Joker, 2018), Afasia (Anterem Edizioni, 2021), În ape de tăcere/ In acque di silenzio (Editura Cosmopoli, Bacau, 2023).La sua poesia è stata tradotta in Inglese e Romeno e in particolare il testo Terezín scritto per Margit Koretzovà e Rozkvetlà louka s motyly, Le farfalle, il disegno che Margit fece a Terezín dove fu deportata nel 1942 con l’intera famiglia prima di essere trasferita ad Auschwitz, è stato tradotto in Inglese Francese Spagnolo Tedesco Romeno e Ceco.

Suoi testi sono apparsi, tra l’altro, nei blog Blanc de ta nuque e La dimora del tempo sospeso, nel sito di Nanni Cagnone, sulle riviste Il Monte Analogo, Le voci della luna, La Clessidra, Il Segnale, Italian Poetry Review, Osiris poetry, nella rivista giapponese δ e nella rivista romena Poezia, e on-line nelle riviste Carte nel vento, Tellusfolio, La foce e la sorgente, Fili d’aquilone.

Il portale BombaCarta le ha dedicato La lettera in Versi n. 56 curata da Rosa Elisa Giangoia.

E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque, primo e secondo volume (Edizioni Dot.com.Press, 2011 e 2016) e La lingua visitata dalla neve (Aracne, 2019), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, 2012), in Fuochi complici di Marco Ercolani (Il leggio, 2019) e in Anni di Poesia di Elio Grasso (puntoacapo Editrice, 2020).

Fa parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della Giuria del Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano.


giovedì 25 maggio 2023

Guglielmin, Un regno di ciechi senza doni (Marco Saya Edizioni)


 Quarta ci copertina:

In questo libro ci sono quattro fili che si intrecciano: la trama dell’Amleto shakespeariano, il fare teatro nei suoi elementi fisici e simbolici, il metapoetico, la mia autobiografia. Al centro dell’intreccio c’è la Storia, con le sue ossessioni: il potere, l’identità, la famiglia, il libero arbitrio, la figura femminile.

 

Un grande vuoto pervade l’insieme, quello prodotto dalla modernità centripeta, che la scrittura colma soltanto in parte attraverso una regia che monta i frammenti e decide a quale voce dare o non dare la parola. Un’operazione che non cerca la meraviglia o il gesto di rottura con il canone: ogni testo porta invece con sé l’esperienza tragica del vivere. La mia poesia onesta si dà così, talvolta anche usando leve stilisticamente sperimentali, sia per centrare meglio l’oggetto del discorso e sia per una vocazione al dialogo postmoderno – di matrice filosofica – con la tradizione, che da sempre accompagna la mia scrittura.


Qui alcune poesie, ma il vero senso dell'opera si dipana seguendo passo passo lo svolgersi del dramma, scrittura di secondo grado non soltanto della vicenda amletica, ma della vita stessa degli uomini e delle arti rappresentative.

martedì 16 maggio 2023

Rafael Cadenas (ne scrive Erika Reginato)

 

      Foto di Vasco Szinetar 

RAFAEL CADENAS, PREMIO CERVANTES

IL POETA DEL VENEZUELA, LIBERA LA PAROLA

Erika Reginato

 

Il poeta Rafael Cadenas (Venezuela, Barquisimeto 1930), il più importante rappresentante della poesia in lingua spagnola, oggi ai suoi 93 anni, è considerato il più grande poeta, scrittore e saggista venezuelano, è stato meritevole del Premio in Lingua Castellana “Miguel de Cervantes”. Il giurato ha riconosciuto la trascendenza creatrice che ha fatto della poesia un motivo della esistenza. La sua opera esprime desolazione, l’ordine del verbo e del silenzio e la ricerca della lingua.

Il “Cervantes” non è un premio ad un’opera, ma il riconoscimento di una vita dedicata alla letteratura. La vita di Rafael Cadenas è stata consacrata alla difesa e diffusione dello spagnolo. Il poeta venezuelano ha sorpreso al pronunciare il discorso dal tradizionale leggio, dell’Università di Alcalá (Spagna). Lo ha fatto scandendo le parole e permettendosi lunghe pause come nelle sue letture poetiche, e nel suo intervento si ha riferito a Rilke e Walt Whitman come i suoi maestri letterari. Ha sottolineato che è necessario vivere in democrazia, e ricorda le parole di Einstein: il nazionalismo è il morbillo dell’umanità.

La poesia più famosa, “Sconfitta”, è stata un simbolo negli anni ’60: Io che non ho mai avuto un mestiere / che davanti a tutti gli avversari mi sono sentito debole/ che persi i migliori titoli della vita…

Una poesia scritta dopo l’esilio che il poeta ha vissuto nell’isola di Trinidad durante la dittatura di Pérez Jimenez.

 

Rafael Cadenas, professore universitario, dichiara: l’università Centrale del Venezuela vive momenti difficili e ha sottolineato “che una università sommersa al indottrinamento, smette di educare liberamente". Continua dicendo come la lingua spagnola sia “martoriata” dagli anglicismi come altre lingue.  E poi dice: "questo premio non è nessun sogni, che si deve fare con piena libertà". Ha finito il suo discorso ricordando che Cervantes, fu un grande difensore della libertà e ripete le parole di Don Chisciotte che dice a Sancio, il suo fedele scudiero: “La libertà è uno dei doni più preziosi dal cielo concesso agli uomini…è per la libertà, come per l’onore, si può avventurare la vita”. Provocazione dei successi politici mondiale, ma il poeta anche vuole fare riferifento a quella avventura che affrontò nell’esilio, nel labirinto umano e scrive Cadenas:

Solo ho conosciuto la libertà all’improvviso, quando ritornava al mio corpo.

Rafael Cadenas scolpisce la parola che nasce da quel silenzio dove trova il “nulla” ungarettiano ma anche risale da questo profondo pozzo e costruisce il linguaggio personale che estrae dalla sua propria isola e che pulisce con lavoro e lucidità. La parola poetica di Rafael Cadenas possiede nel suo equilibrio, una carica di appartenenze ed un’esattezza, fino all’incontro della parola unica, universale e rinnovatrice che trova la su immagine.

 

      

Poesie di Rafael Cadenas

Tradotte da Erika Reginato

 

Una isla' (1958)

 

Si el poema no nace, pero es real tu vida,

eres su encarnación.

Habitas

en su sombra inconquistable.

Te acompaña

diamante incumplido.

 

Un’isola (1958)

 

Se la poesia non è nata, ma la tua vita è reale,

tu sei la sua incarnazione.

Vivi

nella sua ombra indomabile.

Ti accompagna

diamante incompiuto.

 

 

Amante (1983)

 

Eludías

el encuentro

con el tú

magnífico,

el que te toma

y te anula como tempestad

y de ti arranca al que busca.

 

Amante (1983)

 

Evitando

l'incontro

con il tu

magnifico

colui che ti prende

e ti annulla come una tempesta

e da te toglie quello che cerca.

 

Las paces (1988)

 

Lleguemos a un acuerdo, poema.

Ya no te forzaré a decir lo que no quieres

ni tú te resistirás tanto a lo que deseo.

 

Hemos forcejeado mucho.

 

¿Para qué este empeño en hacerte a mi imagen

cuando sabes cosas que no sospecho?

 

Líbrate ya de mí.

 

Huye sin mirar atrás.

 

Sálvate antes que sea tarde.

 

Pues siempre me rebasas,

sabes decir lo que te impulsa

y yo no,

porque eres más que tú mismo

y yo sólo soy el que trata de reconocerse en ti.

 

Tengo la extensión de mi deseo

y tú no tienes ninguno,

sólo avanzas hacia donde te diriges

sin mirar la mano que mueves

y cree poseerte cuando te siente brotar de ella

como una sustancia que

se erige.

      

Imponle tu curso al que escribe, él

sólo sabe ocultarse,

cubrir la novedad, empobrecerse.                                        

 

Lo que muestra es una reiteración

cansada.

 

Poema,

apártame de ti.

 

 

Le paci (1988)

 

Mettiamoci d'accordo,

poesia.

Non ti costringerò più a dire quello che non vuoi

né a resistere così tanto a ciò che desidero.

 

Abbiamo faticato molto.

 

Perché questo sforzo per renderti a mia immagine

quando sai cose che non sospetto?

 

Sbarazzati di me ora.

 

Scappa senza voltarti indietro.

 

Salva te stessa prima che sia troppo tardi.

 

Bene, tu mi superi sempre,

sai come dire cosa ti spinge

e io no,

perché sei più di te stesso

e io sono solo colui che cerca di riconoscersi in te.

 

Ho l'estensione del mio desiderio

e tu non ne hai,

ti muovi solo dove stai andando

senza guardare la mano che muovi

e crede di possederti quando ti sente che

da lei spunta la sostanza che

si eleva.

 

Disponi il tuo scorrere a quel che scrive, lui

solo sa nascondersi,

avvolgere la novità, impoverirsi.

 

Dimostra solo una reiterazione

stanca.

 

Poesia

allontanami da te.

 

Ars poética. Intemperie (1977)

 

Que cada palabra lleve lo que dice.

Que sea como el temblor que la sostiene.

Que se mantenga como un latido.

 

No he de proferir adornada falsedad ni poner tinta dudosa

ni añadir brillos a lo que es.

Esto me obliga a oírme. Pero estamos aquí para decir

verdad.

Seamos reales.

Quiero exactitudes aterradoras.

Tiemblo cuando creo que me falsifico. Debo llevar en peso

mis palabras. Me poseen tanto como yo a ellas.

 

Si no veo bien, dime tú, tú que me conoces, mi mentira,

señálame la impostura, restriégame la estafa.

Te lo agradeceré, en serio. Enloquezco por corresponderme.

Sé mi ojo, espérame en la noche

y divísame, escrútame, sacúdeme.

 

 

Ars Poética

Traduzione: Erika Reginato, 2011

 

Che ogni parola porti quello che dice.

Che sia come il tremore che la sostiene.

Che si conservi come un palpito.

 

Non ho da dire decorata falsità nemmeno da mettere tinta dubbiosa né aggiungere

lucentezza a quello che c’è.

Questo mi obbliga ad ascoltarmi. Ma siamo qui per dire la verità.

Saremo reali.

Voglio precisioni terrificanti.

Tremo quando credo che mi falsifico. Devo portare in peso

le mie parole. Loro mi possiedono come io le possiedo.

 

Se non vedo bene, tu dimmi, tu che conosci la mia bugia, segnalami

la calunnia, rinfacciami la truffa.

Ti ringrazierò, sul serio.

Impazzisco per corrispondermi

Tu sei il mio occhio, aspettami nella notte

e scorgimi, scrutami, sbattimi.

 

YOU

 

Tú apareces,

tú te desnudas,

tú entras en la luz,

tú despiertas los colores,

tú coronas las aguas,

tú comienzas a recorrer el tiempo como un licor,

tú rematas la más cegadora de las orillas,

tú predices si el mundo seguirá o va a caer,

tú conjuras la tierra para que acompase su ritmo a tu lentitud de lava,

tú reinas en el centro de esta conflagración

y del primero

al séptimo día

tu cuerpo es un arrogante

 palacio

donde vive

el

temblor.

 

Tu

 

Tu appari

ti spogli

tu entri nella luce

tu risvegli i colori,

 incoroni le acque,

tu cominci ad attraversare il tempo come un liquore,

finisci il più accecante dei lidi,

tu prevedi se il mondo andrà avanti o cadrà,

tu evochi la terra per far corrispondere il suo ritmo al tuo lava lenta,

tu regni al centro di questa conflagrazione

come un uccello immobile

e dal primo

il settimo giorno

il tuo corpo è un arrogante

palazzo

dove vive

il

tremore.

  

Cadenas Rafael (Barquisimeto8 aprile 1930) è un poeta e traduttore venezuelano. Per molti anni è stato docente presso l'Universidad Central de Venezuela. Ha ricevuto il Premio Letterario Nazionale (1985), il Premio Letterario Internazionale Guadalajara (Messico, 2009), il Premio García Lorca (2015) e il Premio Cervantes (2022), il più importante premio letterario in lingua spagnola. Tra i suoi libri di poesia e saggi si trovano: Cantos iniciales (1946), Una isla (1958), Los cuadernos del destierro (1960, 2001), Falsas maniobras (1966), Intemperie (1977), Memorial (1977.2007), Amante (1983.2002). Amant (2004), «Amante» . Lover (2004, 2009), Dichos (1992), Gestiones (1992). Premio Internacional Juan Antonio Pérez Bonalde, En torno a Basho y otros asuntos (2016), Contestaciones (2018). Tra i suoi saggi: Literatura y vida (1972), Realidad y literatura (1979), Apuntes sobre San Juan de la Cruz y la mística (1977, 1995),La barbarie civilizada (1981), Anotaciones (1983), Reflexiones sobre la ciudad moderna (1983), En torno al lenguaje (1984), Sobre la enseñanza de la literatura en la Educación Media (1998).